Alla fine i tecnici si distribuirono a vari pannelli di controllo sparsi attorno alla stanza, e Polanyi si rivolse al suo pubblico.
— Quello che vedete, e non avrei bisogno di dirlo, non sono ologrammi — esordì. — Ci sono olografie, tra i dati trasmessi dalle sonde, ma non le abbiamo ancora decodificate completamente. E ho pensato che vi interessasse vedere quello che c’è, anche se sono solo immagini a due dimensioni.
Larry annuì e disse: — Ci sono fotografie della superficie tra quelle che vedremo?
— Solo tre — rispose Polanyi. — La trasmissione di dati dalla superficie è difficoltosa, non sappiamo ancora perché. I dati orbitali invece sono perfetti.
Larry si accorse improvvisamente di aver perso di vista Dan. Si guardò in giro nella stanza affollata, e lo vide che se ne stava in disparte, di fianco al gruppo.
Le luci sul soffitto si spensero, e Larry tornò a rivolgere l’attenzione allo schermo che si accendeva. Apparvero dei colori, presero forma delle figure.
Era una fotografia del pianeta scattata da lontano, in modo che se ne vedesse l’intera sfera.
— Questa è la prima fotografia scattata dalle sonde — disse nel buio la voce di Polanyi. — E precisamente dalla sonda Uno, come indicano chiaramente i numeri in basso a destra.
Il pianeta era giallo. Vaste distese di giallo dorato, chiazzate qua e là di verde. Larry si chiese quale fosse la terra e quale l’acqua. L’intera palla era striata di nuvole bianche, che velavano gran parte del terreno sottostante. Ma non c’erano formazioni nuvolose complesse, come i cumuli temporaleschi che Larry aveva visto in certe immagini della Terra.
— Ecco la successiva — disse la voce di Polanyi.
La seconda fotografia era stata presa a distanza ravvicinata. Vi si vedevano rilievi simili a grinze, come quelle di un lenzuolo spiegazzato. Il giallo era la terra ferma, si rese conto Larry, e le chiazze verdi non erano la vegetazione, ma acqua.
La rassegna di fotografie durò più di un’ora. Il pianeta non aveva grandi oceani, ma solo mari, sparsi qua e là. E non c’erano calotte di ghiaccio ai poli.
Polanyi commentava spiegando che cosa rappresentavano le fotografie, frammettendo informazioni fornite da altri strumenti a bordo delle sonde. E tutto contribuiva a comporre un quadro deludente.
Il pianeta era poco più grande della Terra, ma la gravità in superficie era più alta di un terzo.
Qualcuno, nel buio, disse: — Uno virgola tre g. Significa che un uomo di novanta chili se ne sentirebbe addosso trenta in più, continuamente.
— Sarebbe come portarsi sempre in spalla un bambino di otto anni.
— Uno sforzo tremendo per il cuore. — Larry riconobbe, in quest’ultima osservazione, la voce del medico capo.
L’aria conteneva una percentuale di ossigeno poco più alta di quella della Terra, ma anche quantità pericolosamente elevate di ossidi nitrosi e solforosi.
— Effetto del vulcanismo — spiegò Polanyi, indicando col dito una fotografia della parte in ombra del pianeta, dove brillavano delle luci rosse. — Vulcani… in gran parte attivi. Ce lo confermano gli analizzatori a infrarossi. I vulcani in attività emettono ossidi solforosi e altre sostanze nocive.
Larry fece una smorfia.
La vegetazione era di un verde tendente al giallo. Conteneva clorofilla, com’era risultato dalle letture spettrali effettuate dalle sonde, ma lo svolgimento delle sue funzioni vitali non era, evidentemente, lo stesso del verde della Terra.
— E le fotografie della capsula? — chiese qualcuno.
— Stanno per arrivare.
L’immagine sullo schermo cambiò bruscamente, e apparve un paesaggio meraviglioso, tutto dorato. Piante gialle dappertutto, alcune alte e robuste, come alberi, con esili rampicanti pendenti dai rami; era giallo anche il cielo, dove le nuvole avevano una sfumatura dorata.
— Questa fotografia è stata scattata verso l’ora del tramonto locale — disse Polanyi. — Il colore giallo è dovuto a questo, credo… almeno in parte.
Era stupendo. Larry guardava quelle colline, quelle nubi, quell’erba tenera d’oro, e nel suo intimo si risvegliava qualcosa che non avrebbe mai creduto di provare. Un mondo, un mondo vero, dove si poteva camminare all’aria aperta, alzare gli occhi e vedere un cielo che aveva albe e tramonti, salire su una collina, nuotare in un fiume…
Rabbrividì. Si stava suggestionando. Quel mondo dorato era una trappola mortale. Un uomo non avrebbe potuto viverci cinque minuti, se non indossando un’ingombrante tuta protettiva.
La scena cambiò. Ora l’erba e gli alberi gialli seguivano il pendio dolce di una valle. In lontananza si vedevano montagne di roccia nuda, con le cime velate di nubi.
— Ci sono almeno due vulcani attivi tra quelle montagne sullo sfondo — disse Polanyi. — Le nubi sono vapori fuoriusciti dai vulcani.
Era sempre stupendo.
La scena cambiò di nuovo, e apparve la vista dall’altra parte della capsula. Il pendio della collina, sempre coperto d’erba e arbusti dorati, saliva; e su, vicino alla cima, quattro sagome scure si stagliavano contro il cielo.
— Sembrerebbero animali — disse la voce di Polanyi. — E tenendo conto della distanza, abbiamo dedotto che devono essere più o meno grossi come pecore terrestri.
Difficile dire che forma avessero. Si aveva l’impressione di una testa, di anche rotonde. Non si vedevano code, e non si poteva neppure tentare di distinguere quante gambe avessero perché la parte inferiore del corpo era nascosta dall’erba alta.
Le luci sul soffitto del laboratorio si accesero improvvisamente, e l’immagine svanì dallo schermo.
— Per il momento non abbiamo altro — disse Polanyi.
Larry strizzò gli occhi alla luce improvvisa, e scoprì di essere di malumore. Aveva passato la vita in una prigione, in un reclusorio d’acciaio e di plastica, dove si respirava sempre la stessa aria riciclata, e si conosceva ogni faccia, ogni comparto, ogni millimetro quadro di spazio. E là fuori c’era un mondo. Un grande, bellissimo mondo dorato su cui nessuno aveva mai messo piede, e che aspettava di essere esplorato e abitato.
Aspetta di ucciderci, si ricordò.
Tutti si erano messi a parlare, sottovoce, e il laboratorio era pieno del ronzìo di dieci conversazioni insieme.
Poi la voce di Dan impose il silenzio. — E così abbiamo avuto la prima visione della terra promessa.
Larry fece un passo avanti. — Io direi che promette ben poco. È inabitabile.
— Per noi — ribatté Dan, — ma non per i nostri figli.
— Se li trasformiamo in esseri capaci di respirare zolfo e forti quanto un uomo più un terzo.
— Se è necessario, i genetisti sono in grado di farlo.
Larry fece per rispondere, ma si trattenne. Disse soltanto: — Questo non è il posto adatto per discuterne. Domani mattina convocherò il Consiglio e allora sentiremo il parere di tutti e decideremo se questo pianeta dev’essere il nostro mondo o se dobbiamo cercarne un altro.
Dan non disse niente, si limitò a guardare Larry con un sorriso ambiguo sulle labbra.
Era tardi, e le luci del corridoio erano basse. Larry e Valery avevano cenato nell’alloggio dei Loring, con la madre di Val. Ora, dopo una lunga passeggiata per il livello 1, stavano rientrando. Camminavano lentamente, mano nella mano.
Si fermarono a uno degli oblò di vetroplastica, si sedettero sulla panca imbottita contro la paratia vicina, e per alcuni minuti guardarono il cielo fuori senza parlare.
Le stelle erano fitte come granelli di polvere. Una, gialla, brillava più delle altre. Poco distante, una arancione occhieggiava, più fioca.
— Domani mattina il Consiglio si riunisce per decidere — disse Larry, stancamente.
— Pensi che siamo arrivati alla fine del viaggio? — chiese Valery.