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Guido guardò il mare, che ora spumeggiava furiosamente, con onde ciclopiche che si accavallavano e andavano a infrangersi nascondendo il sole e il cielo dorato.

— Posso aspettare dieci minuti — disse.

Nella tenda centrale dell’accampamento, Dan si accigliò e guardò di malumore la radio. La tenda centrale era un guazzabuglio di apparecchi radio, videoschermi, unità di cottura, scatoloni di provviste, tavoli e sedie pieghevoli, e cinque persone affaccendate.

Dan sentiva all’esterno la furia crescente del vento. Una delle ragazze sedute a un banco d’analisi alzò gli occhi al tetto della cupola trasparente; la plastica s’increspava al vento, con un crepitìo che nessuno di quelli che stavano nella tenda aveva mai udito prima. C’erano voluti giorni perché si abituassero al vento e a tutti i rumori di un mondo aperto.

E ora questi rumori non erano soltanto nuovi, ma anche spaventosi.

— Nancy, Tania, Vic… voi tre mettetevi la tuta e tornate sull’astronave. Io e te, Ross, resteremo qui. Vic, portati dietro l’ultimo barile di deuterio.

— Ma non è neanche pieno a metà — obiettò Vic.

— Lo so, ma è meglio portarlo sull’astronave — disse Dan. — Non si può prevedere quali danni farà il temporale, e il deuterio è troppo prezioso.

Vic annuì.

— Mettiti la tuta — ripeté Dan. — Io e Ross ci fermiamo qui.

Ross Cranston gli lanciò un’occhiata ma non disse niente. Non gli faceva piacere venire dopo un barile d’acciaio inossidabile alto un metro, anche se sapeva che il deuterio era davvero più importante, per l’astronave, di un qualsiasi operatore meccanografico.

Le due ragazze e Vic impiegarono qualche minuto a prepararsi, perché l’alta gravità rallentava i movimenti. Poi Vic prese il barile per i manici, e gli cedettero leggermente le ginocchia.

— Ce la fai? — chiese Dan.

— Sì. — Da sotto il casco, la voce di Vic arrivava smorzata.

I tre attraversarono la camera di compensazione e si avviarono pesantemente, nella sabbia e nella ghiaia agitate dal vento, verso la sagoma snella dell’aviorazzo. Dan rimase a guardarli da dietro la plastica trasparente della tenda. Le due ragazze presero un manico del barile ciascuna e aiutarono Vic a portarlo.

Dan si voltò e vide che Ross era già al portello del rifugio sotterraneo.

— Io mi metto la tuta e vado a controllare gli impianti di raffinazione — gli disse. Dovette alzare la voce per farsi sentire al di sopra dell’urlo del vento, benché Ross fosse solo a pochi metri.

Ross annuì, visibilmente infelice.

— Tu sta’ alla radio, mentre sono fuori — disse Dan, allungando una mano verso la tuta.

Ross fece una faccia visibilmente preoccupata, ma annuì ancora.

Ha paura, pensò Dan. Ha paura del temporale, e ha paura che mi succeda qualcosa, perché allora lui sarebbe costretto a venire fuori ad aiutarmi.

Nessuno dei due si trovava sul pianeta quando c’era stato il primo uragano, quattro settimane prima. Il vento aveva rovesciato l’antenna di comunicazione sulla tenda centrale, e due persone erano rimaste gravemente ferite. In seguito a questo incidente l’antenna era stata spostata lontano dal campo, ed era stato scavato il rifugio sotterraneo.

Mentre Dan finiva di sistemarsi la tuta, i motori del razzo si accesero con un rombo che superò perfino la furia crescente del vento. Dan, col casco in mano, stette a guardare la scialuppa che avanzava sulle ruote d’atterraggio, e poi, acquistata velocità, oltrepassava urlando la tenda in direzione del mare. La sagoma a delta si perse nel luccicante calore dei gas di scarico ma, socchiudendo gli occhi, Dan riuscì a distinguere il muso che si sollevava. Il razzo fece ancora un breve tratto sulle ruote di coda, poi si alzò in volo come una freccia, sparandosi dritto in aria contro il cupo ammasso di nubi.

Dopo neanche un minuto, il suo rombo era svanito, e restava soltanto il muggito del vento e il crepitìo della plastica della tenda.

Mettendosi il casco, Dan pensò che c’era una bella differenza tra vedere un temporale su un videonastro e trovarcisi in mezzo.

Controllò la radio della tuta. — Vado, Ross.

— Okay.

Dan si voltò e vide Ross tetro e spaventato.

— Se scendi nel rifugio avvertimi prima di lasciare la radio. Non voglio trovarmi là fuori abbandonato a me stesso.

— Sta’ tranquillo.

Dan aprì il portello interno della camera di compensazione. E mentre la camera si sigillava e pompava buona aria respirabile, tentò di calmarsi.

Non era spaventato; era euforico, eccitato. E questo era pericoloso, lo sapeva. I paurosi, come Ross, non corrono rischi. Lui invece era felice di essere sulla superficie del pianeta, di trovarsi su un nuovo mondo e lo eccitava l’idea di affrontarne i pericoli. L’uragano, il vento, il mare infuriato, la polvere e la sabbia che oscuravano l’aria, le nuvole che si facevano sempre più cupe… tutto gli dava un senso di libertà e d’avventura. Era tutt’altra cosa che l’astronave. Tutt’altra cosa che quel mondo quieto e ordinato dove tutto si svolgeva secondo programmi stabiliti, e ogni giorno era uguale all’altro. Questa sì che era vita!

Le luci della camera di compensazione passarono al verde. Dan raggiunse il portello esterno e girò lentamente, molto lentamente, il volante di comando. Il portello si aprì, ed entrò una folata di vento denso di sabbia.

Dan dovette appoggiarsi con tutto il peso contro il portello, per aprirlo abbastanza da poter uscire. I suoi muscoli cominciavano già ad avvertire la fatica. L’alta gravità rendeva tutto più pesante: la tuta, il portello che non voleva aprirsi. Fu uno sforzo sollevare un piede dal pavimento della camera pressurizzata e posarlo sul suolo sabbioso.

Il vento colse Dan di sorpresa. L’aveva sentito urlare, ma ora ne sperimentava la forza. Pur dentro la tuta, gli sembrava di ricevere gli schiaffi di un gigante, spintoni bruschi che minacciavano di farlo cadere.

Sorrise.

Voltò le spalle al vento e si avviò, rasentando la tenda, verso l’ammasso di sagome metalliche della raffineria che avevano ormai perso la loro lucentezza.

Dopo settimane di esposizione all’atmosfera corrosiva del pianeta, il metallo non brillava più, e le piogge l’avevano scalfito e ammaccato. Ma dentro tutto funzionava, si disse Dan, guardando i tubi che arrivavano al mare. Si prende l’acqua, si estrae il deuterio, e quel che resta, il 99,97 per cento, si restituisce. Non vogliamo molto da te, disse silenziosamente Dan al mare. Solo un esiguo 0,03 per cento. Quanto ci serve per vivere.

Uno stridore metallico lo fece sussultare violentemente. Impacciato dal casco, per vedere quello che succedeva dovette voltarsi completamente e inclinare all’indietro tutta la persona.

Uno dei pannelli delle batterie solari, la serie di pile al silicone che trasformavano la luce solare in energia elettrica, si era staccato dal tetto della torre di deposito della raffineria. E scivolava da una cupola all’altra degli impianti di raffinazione, sbattendo, stridendo… Arrivato in fondo, fu preso dal vento e volteggiò come un’enorme foglia dentellata, sparendo nelle nubi di polvere che si addensavano dappertutto.

— Tanto non servivi a niente! — urlò Dan. Le batterie solari erano state corrose quasi subito dall’aria impregnata di zolfo, e per fornire l’energia alla base si era dovuto portar giù dall’astronave un piccolo generatore. Il resto dell’attrezzatura in quella parte dell’accampamento pareva in ordine perfetto. Se anche i pannelli solari vogliono staccarsi tutti, pensò Dan, non fa niente. Purché non squarcino la tenda.

Cominciavano a tremargli le gambe per lo sforzo, ma si costrinse ad avanzare lungo il lato della raffineria. Appena svoltato l’angolo, il vento lo investì con una forza tale che per poco non lo fece cadere all’indietro. Quasi piegato in due, avanzò ancora.