Alla ventesima immagine, Valery scosse la testa. — Per ora non ho niente di meglio. C’è da disperarsi. Nessun pianeta che abbia una vaga somiglianza con la Terra.
Larry la guardò. — E tutti questi…
— Sono in gran parte giganti gassosi, come Giove. O palle di roccia, come la Luna.
— Sei sicura?
Val si passò una mano nei capelli. — Be’, li sto ancora studiando, sto raccogliendo dati più precisi… ma ho poche speranze.
Larry si appoggiò all’orlo della scrivania. — E questo vale sia per Epsilon Indi sia per Epsilon Eridani?
— Sì. Comincio a temere che non ci sia un’alternativa a questo pianeta, Larry.
Per un momento Larry tacque, assorto. — E quando… quando riferirai al Consiglio sui tuoi studi?
— Quando avrò dati più precisi — rispose Valery. — Non ho mostrato a nessuno queste immagini… solo a te, per ora. Fra una settimana o due, potrò fare una relazione al Consiglio.
Larry annuì, senza dire niente.
Valery allungò una mano per spegnere il video. — Oddio! — Tirò indietro la mano come se il tasto scottasse. — Per poco non premevo il tasto di cancellazione. Pensa che disastro.
— Eh?
— Tutti i miei preziosi studi sarebbero stati cancellati dalla memoria dell’elaboratore. Mesi di lavoro. — Val premette il tasto giusto, spegnendo lo schermo. Poi guardò Larry e aggiunse: — Gli unici due posti dove sono reperibili i risultati dei miei studi sono la memoria della banca dei dati dell’elaboratore… e la mia testa.
Larry la guardò, annuì, e ancora una volta rimase in silenzio.
XII
La furia del vento continuava ad aumentare.
Dan tentò di appiattirsi nella rientranza tra due cisterne, ma si sentì strappare via, come se il vento volesse tirarlo fuori dalla nicchia e giocare a bocce con lui, come aveva fatto coi pannelli solari. Non ce la faceva quasi più a stare in piedi. Il rumore dell’uragano era assordante, la polvere gli impediva di vedere a dieci metri. Sentiva la sabbia raschiare contro la tuta. Una pellicola giallastra gli si stava formando sulla visiera, e quando, goffamente, ci passò sopra una mano per pulirla, non fece che peggiorare le cose.
Non posso rimanere qui, pensò. Devo in qualche modo arrivare al rifugio.
Sporse appena la testa dal fianco curvo di una cisterna per guardare la tenda, e per poco il vento non lo buttò a terra. La tenda, sbatacchiata dal vento, si agitava all’impazzata, schioccando e sventolando come un enorme lenzuolo. A un certo punto flagellò uno dei sottili tubi metallici che uscivano dalla tozza centrifuga, e il tubo, con un rumore secco, si spezzò in due. Dan ebbe la visione nitida di quello che sarebbe successo a lui se la tenda-frusta l’avesse colpito.
Non riusciva quasi più a muovere le braccia. Ho i muscoli stanchi… o sono le giunture della tuta bloccate dalla sabbia? Probabilmente tutte e due le cose.
Poi cominciò a chiedersi che cosa sarebbe successo se nella tuta si fosse aperta una fenditura, se l’aria solforosa avesse corroso i tubi di plastica dell’ossigeno, se la sabbia avesse tolto ogni mobilità alla tuta, se…
Basta! s’impose. Cerca di pensare con calma. Sei abbastanza al sicuro qui o devi tentare di arrivare al rifugio? La risposta non venne da lui. Mezza dozzina di lampi guizzarono in lontananza, ancora al largo del mare, ma non tanto distanti, perché il tuono esplose quasi subito, assordante.
I fulmini! A Dan venne in mente una cosa che aveva sentito dire dopo l’ultimo uragano. I fulmini erano attirati dai grandi impianti metallici della raffineria. L’avevano colpita a decine.
Se mi faccio sorprendere dai fulmini qui fuori…
Capì che doveva arrivare al rifugio.
Lentamente, con concentrazione, si piegò in ginocchio e poi si sdraiò a pancia in giù. Vicino a terra la sabbia agitata dal vento era anche più fitta, e non ci si vedeva a un palmo. Il vento tentò di sollevarlo, di farlo volare come un aliante.
Resistendo, schiacciandosi contro il terreno, Dan cominciò a strisciare verso la tenda, guidato, più che dalla vista, dagli schiocchi della plastica.
Gli parve di strisciare per ore, e sapeva che la tenda era solo a pochi metri dalle cisterne. Per un attimo, un lampo scolorì tutto di un bianco accecante, e quando scoppiò il tuono, Dan ebbe l’impressione di spaccarsi come un guscio d’uovo. Avvertiva dolore in tutto il corpo, ed era inzuppato di sudore.
Devo fermarmi… riposare… Ma qualcosa dentro di lui si ribellò. Se ti fermi sei morto. Avanti, maledizione! Avanti!
E continuò ad avanzare, centimetro per centimetro. Un fulmine colpì del metallo vicino a lui, con un bagliore vivido e uno scoppio assordante. Qualcosa gli frustò la gamba destra, e in quel punto la tuta s’irrigidì e non si fletté più.
Sarà la tuta o la gamba? Non sentiva male, ma poteva essere il torpore provocato dallo choc. E poi, aveva male dappertutto…
La sua mano destra urtò qualcosa. La base circolare d’acciaio-plastica della tenda.
Alzò la testa e vide, davanti a sé, la tenda, che sventolava furiosamente, simile a un mostro da incubo. Si gonfiava, ingigantiva, riempiendogli la vista della sua grinzosa immensità. Poi, con uno schiocco, si appiattì, per rialzarsi quasi subito.
Quella mi spacca in due, pensò Dan.
Armeggiò goffamente con la cintura, e dopo molti tentativi riuscì a prendere dalla borsa degli attrezzi il piccolo laser a forma di pistola che usava per tagliare e saldare.
Ne appoggiò il muso rincagnato contro la base della tenda, e premette il grilletto. Non ci furono né rumori né vibrazioni, ma dopo qualche istante la plastica brillò e si lacerò, staccandosi dal basamento.
Poi, gonfiandosi, si lasciò prendere dal vento, scomparendo nell’uragano urlante come un gigantesco uccello liberato da una gabbia.
Per un lungo, terribile momento, Dan rimase fermo dov’era, poi lentamente si issò sulla base della tenda e si trascinò verso il portello del rifugio sotterraneo. Le scrivanie, le sedie, gli schermi, i pannelli di controllo erano stati rovesciati dal vento e sparpagliati come sassolini. Un altro fulmine esplose, con accecante, assordante veemenza.
Poi le mani di Dan trovarono il portello. Intorpidito dal dolore e dalla stanchezza, si tirò su sui gomiti e annaspò cercando l’interruttore di comando. Lo trovò e vi si lasciò cadere sopra. L’interruttore non si mosse. Dan pigiò con tutte le sue forze. Niente.
Bloccato dalla sabbia.
Dan alzò un pugno e con uno sforzo enorme lo picchiò sul portello. Se Cranston è dentro… se non è morto… I pensieri gli si confondevano nella testa. Picchiare. Alzare il pugno e lasciarlo cadere. Alzare il… pugno e… lasciarlo cadere.
Il portello si mosse! Dan lo sentì spingere contro il suo braccio inerte, lo vide sollevarsi lentamente. Una mano guantata lo apriva da dentro.
Tutto si fece indistinto, caliginoso, rosso sangue e poi nero seppia. Dan sentì il suo corpo muoversi, e l’urlo del vento gli giunse affiochito, smorzato. Qualcuno gli parlava, parole pressanti gli crepitavano nella cuffia. Poi il nero lo avvolse e lo fece affondare nell’incoscienza.
Quando si svegliò, era senza casco: e Cranston non aveva nemmeno la tuta, solo la sua uniforme azzurra. Il piccolo rifugio sotterraneo era fresco, comodo e sicuro. Il vento era un mugolio lontano. Le pareti curve e il soffitto del rifugio erano protettivi, la cuccetta morbida e comoda.
Ross Cranston era ritto in piedi davanti all’unità di cottura.