— Hai fame? — chiese guardando Dan con aria preoccupata.
Dan si accorse di essere seduto su una delle cuccette, appoggiato alla parete curva del rifugio.
— Eh?… sì. — Gli dolevano tutti i muscoli. Aveva un mal di testa feroce, la bocca secca e incrostata di polvere.
Guardandosi le gambe, vide che Cranston gli aveva tolto, oltre al casco, la parte inferiore della tuta.
— C’era una brutta ammaccatura sulla gamba — disse Cranston. — Ho voluto accertarmi che la tua gamba, sotto, non fosse ferita. Hai un livido, niente di grave.
— Quando… — Dan tentò di leccarsi le labbra ma aveva secca anche la lingua. — Quando sei… sceso nel rifugio?
Cranston lo sbirciò con evidente disagio, poi riportò l’attenzione sulla cucina. — Ehm… ho tentato di avvertirti… ma tu non rispondevi. Non sapevo cosa fare, avevo paura che ti fosse successo qualcosa. E poi… ehm… la tenda pareva lì lì per crollare…
— Infatti è crollata — disse stancamente Dan. — Hai fatto benissimo a metterti al sicuro.
— Oh… be’… — Cranston sorrise, sempre un po’ vergognoso.
L’alloggio del dottor Hsai somigliava a certe case giapponesi che Valery aveva visto sui nastri di scuola.
Era un comparto singolo, non più grande degli altri, ma tutto diverso. Verdi rampicanti salivano su per una parete fino al soffitto, dove s’insinuavano tra i pannelli luminosi. Sulla parete c’era un disegno, che rappresentava amene colline verdeggianti e un fiume con un ponticello civettuolo. I rampicanti sembravano fondersi col disegno, animandolo. La cuccetta era austera, ma alla parete contro cui poggiava era appeso un bellissimo drappo rosso. Non c’erano altri arredi, tranne due cuscini per terra e un tavolino nero laccato.
Anche il dottor Hsai era pittoresco, in una morbida vestaglia bianca e nera, con un brillìo di fili d’oro al collo.
— Che magnifica vestaglia! — esclamò, suo malgrado, Valery, entrando nel comparto.
Il medico sorrise amabilmente. — Apparteneva al mio trisnonno ed è stata tramandata di padre in figlio da molte generazioni.
— È molto bella.
Il dottor Hsai sorrise ancora e s’inchinò leggermente. — Purtroppo — disse, — non ho sedie dove farvi sedere. Di solito ricevo nel mio ufficio all’infermeria. Ma voi avete tanto insistito…
— Starò comodissima sul pavimento — disse Valery, e si accovacciò vicino alla cuccetta.
Il dottor Hsai le offrì uno dei cuscini, e Val si sedette sopra e si appoggiò all’orlo della cuccetta.
— Le domande che avete da farmi sono di carattere medico? — chiese il dottor Hsai, sedendosi in mezzo alla stanza.
— Psicologico, direi.
Il dottor Hsai annuì. — Lo immaginavo. Purtroppo le mie nozioni di psicologia sono scarse, anche se in queste ultime settimane ho studiato a fondo tutti i nastri della materia.
— Perché? — chiese Val. — Pensate anche voi che ci sia un assassino a bordo dell’astronave?
Il dottor Hsai sorrise pacatamente. — No, no. Ma qualcuno lo pensa, e sto cercando d’individuare la causa di queste paure.
— Ci sono stati… gli incidenti.
— Sì.
Valery cominciava a sentirsi a disagio. La domanda che era venuta a fare le pareva improvvisamente stupida, e quel che era peggio, aveva l’impressione che il dottor Hsai sapesse quello che voleva chiedergli e compitamente aspettasse che fosse lei a entrare in argomento.
— Dan Christopher ha subito forti scosse emotive — disse lo psicotecnico, più che altro per non far languire la conversazione. — È un giovane che ha molti problemi. Forse converrebbe rianimare uno psichiatra e farlo esaminare a fondo.
— È quello che penso anch’io. Come mai non è stato fatto? — chiese Val.
— Larry Belsen non lo ritiene necessario. E come presidente, spetta a lui decidere sulle richieste di rianimazione.
— Ha detto esplicitamente di no?
— Sì. Gli ho chiesto se voleva che rianimassimo uno psichiatra… È stato quando Dan Christopher era in osservazione all’infermeria, e io non trovavo niente per cui si potesse considerare malato.
— E Larry ha detto che non voleva?
Il dottor Hsai si accigliò leggermente. — Non si è espresso così. Ha detto che secondo lui non era necessario. Voi sapete quante difficoltà comporti rianimare una persona, soprattutto con le risorse limitate che abbiamo. Non è una cosa da farsi alla leggera. Anche perché non si può richiedere alla persona rianimata di tornare a dormire dopo pochi giorni o settimane. Non è consigliabile nemmeno dal punto di vista medico.
— Lo so. — Valery si accorse che stava mordicchiandosi il labbro. — La domanda che volevo farvi…
— Sì?
Non le sembrava più una domanda tanto sciocca… — È possibile… che una persona commetta atti violenti… senza saperlo?
Hsai parve sconcertato.
— Voglio dire, è possibile che uno commetta un assassinio e poi non se ne ricordi?
Hsai si strinse impercettibilmente nelle spalle. — So, dai miei studi, che casi del genere si sono verificati, ma… io non ne ho mai avuto esperienza diretta.
Senza stare a pensarci due volte, Valery sbottò: — Potrebbe essere che Larry non abbia voluto far rianimare uno psichiatra perché in realtà ha paura che salti fuori che il malato è proprio lui, Larry?
Hsai restò un attimo sorpreso, poi si impose una maschera di calma orientale e professionale. — Credete che Larry Belsen sia uno squilibrato mentale?
— La caduta di mio padre non è stata una disgrazia — disse Valery sentendosi sprofondare. — È stata provocata da qualcuno. Dan o Larry… o qualcun altro.
Il dottor Hsai rimase a lungo in silenzio, con gli occhi chiusi. Poi guardò Valery e disse: — Farò immediatamente i passi necessari per far rianimare i migliori psichiatri che abbiamo. Se i vostri sospetti sono anche vagamente fondati, si tratta di una situazione d’emergenza, e non c’è nemmeno più bisogno dell’approvazione del presidente.
— Il guaio è — disse Valery — che forse Dan è già morto.
XIII
Dan sapeva che era un incubo, ma era terrorizzato lo stesso.
Correva, o almeno tentava di correre. Era immerso in un liquido sciropposo che gli ostacolava i movimenti.
Dietro di lui qualche cosa ruggiva, sempre più forte, sempre più vicino. Si voltò un momento a guardare, e non vide altro che un paio di mani gigantesche che si allungavano per afferrarlo.
Tentò inutilmente di correre più forte. Il ruggito divenne assordante. Ci fu un lampo e le mani lo abbrancarono, buttandolo a terra, picchiandolo, tempestandolo di colpi. E lui non riusciva a respirare, non poteva urlare…
Si svegliò, inzuppato di sudore, tutto tremante. Mezzo metro sopra la sua faccia c’era il soffitto curvo del rifugio sotterraneo, e nella cuccetta sotto la sua sentì Cranston russare. Non c’erano altri rumori tranne il ronzìo delle macchine elettriche.
Il vento era cessato!
Dan si tirò su a sedere, facendo urlare di dolore i muscoli della schiena. Per un momento ebbe un terribile capogiro. Poi, vincendo dolore e stanchezza, puntò le mani sull’orlo della cuccetta e si lasciò scivolare sul pavimento di plastica. Come toccò terra, una nuova fitta di dolore lo attraversò tutto.
Scrollò Cranston.
— Oh… eh… cosa…?
— Credo che il temporale sia cessato — disse Dan. — Prova a metterti in contatto con l’astronave, mentre io mi vesto.
Cranston, ancora mezzo addormentato, buttò giù le gambe dalla cuccetta e rimase lì un po’, con la testa ciondolante.
— Cosa… Che ore sono?
Dan guardò l’orologio, regolato sull’ora dell’astronave. — Abbiamo dormito più di dodici ore. Su, mettiti alla radio.