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— Come va? — chiese Cranston, calandosi dalla cuccetta.

— Sono tutto pesto, ma non c’è male.

— Colpa di questa maledetta gravità.

Strascicando i piedi, Cranston andò al ricetrasmettitore, lo accese e si mise a parlare. Dan, intanto, indossò l’unica tuta pressurizzata ancora utilizzabile.

Mentre controllava la guarnizione di tenuta del casco, sentì Cranston dire: — Niente da fare, non rispondono.

— La trasmissione è disturbata?

— Neanche tanto. — Cranston scosse la testa. — C’è silenzio. Credo che senza l’antenna e l’amplificatore su nella tenda, questo apparecchio non abbia abbastanza forza per arrivare all’astronave.

Dan non disse niente. Si avviò verso la camera di compensazione, ci entrò e chiuse il portello interno. La camera pompò l’aria nei serbatoi, poi fece lampeggiare le luci verdi.

Dan alzò le braccia, fece scattare il congegno d’apertura del portello esterno e spinse. Una pioggia di sabbia giallastra e cenere gli scrosciò sulla visiera.

Salì sulla scaletta a pioli incassata nella parete, aprì del tutto il portello, e cacciò fuori la testa.

Il campo sembrava aver subito un bombardamento. La tenda non c’era più, e anche i tavoli, le sedie, gli apparecchi radio, i video e tutto il resto erano chissà dove. Restava soltanto la base d’acciaio-plastica, e anche quella era sepolta sotto uno spesso strato di sabbia e cenere.

Il cielo era tutto grigio e cupo. Le nuvole erano alte, ma si muovevano a gran velocità. Rigidamente, per via della tuta che lo impacciava, Dan si girò per guardarsi attorno.

La raffineria era un disastro. I grandi cilindri e le cupole erano spaccati, anneriti, bruciati. C’era poco da ricuperare… Sapeva che avrebbe dovuto rallegrarsi di essere ancora vivo, ma si sentiva depresso, sconfitto.

L’antenna di comunicazione era crollata, naturalmente. Come quasi tutti gli alberi. Ma l’erba c’era ancora, e sporgeva da sotto la sabbia, assurdamente gialla e allegra in quella scena di cupa desolazione.

Dan ridiscese la scaletta, chiuse il portello e riattivò la camera di compensazione. L’aria solforosa del pianeta fu pompata fuori, e l’aria respirabile che era stata immagazzinata nei serbatoi tornò a riempire il piccolo spazio. Quando si accese la luce verde, Dan aprì il portello interno e rientrò nel rifugio.

Si tolse il casco, che sembrava pesare una tonnellata. Cranston era sempre seduto davanti alla radio. — Non rispondono proprio. Non riesco a mettermi in contatto.

— E non possono neanche vederci — disse Dan, tetro. — Siamo sempre coperti da nuvole fittissime.

— Ma non c’è un modo qualsiasi per avvertirli che siamo qui? E loro non possono trovarci col radar, i rivelatori a infrarossi, che so io?

Dan si lasciò cadere sulla cuccetta in basso e si mise ad aprire le cerniere sulle gambe della tuta. — Col radar non possono capire se siamo vivi o no. Se potessimo realizzare una sorgente di calore abbastanza intensa, allora forse i rivelatori a infrarossi la segnalerebbero…

— Una sorgente di calore? E con che cosa?

Dan si strinse nelle spalle. — Abbiamo solo i laser, e non bastano.

— Mmmm… — Cranston cominciava a spaventarsi. — Aria e acqua ne abbiamo?

— L’ossigeno lo si può ricavare dall’atmosfera del pianeta, ripulendola dallo zolfo e dalle altre porcherie — rispose Dan. — Ma l’acqua… l’impianto di purificazione è inservibile. E qui ne avremo al massimo per due giorni.

— E per quanto tempo ancora quelle nuvole ci copriranno?

Dan si strinse nelle spalle. — Direi che ci conviene trovare il modo di realizzare la sorgente di calore.

Larry camminava avanti e indietro sul ponte di comando, seguito da Joe Haller e Guido Lastella. Gli operatori ai pannelli di controllo erano intenti al lavoro.

— Non puoi abbandonarli laggiù senza fare nemmeno un tentativo di salvarli! — stava urlando Haller.

Larry si voltò di scatto e indicò uno schermo, dove si vedeva solo una massa di nuvole grigie in rapida corsa.

— Non abbiamo la minima prova che siano ancora vivi — ribatté seccamente. — E tu vuoi che rischi il nostro unico pilota qualificato e la nostra unica scialuppa d’atterraggio per l’improbabile caso che quei due siano sopravvissuti all’uragano?

— Sì, perdio!

— Io sono disposto a tentare — disse Lastella.

Larry scosse la testa. — Non abbiamo la più vaga idea di quello che c’è sotto le nuvole. L’intera superficie potrebbe essere sepolta sotto tonnellate di cenere vulcanica.

— Di scialuppe d’atterraggio ce ne sono altre — insistette Haller. — Puoi dare ordine che le tirino fuori dal deposito e le rimontino.

— E come sostituisco l’unico astronauta?

— Ma s’è offerto lui di andare!

— No. — Larry scostò Haller e si rimise a camminare sul ponte.

Haller lo seguì, ostinato. — Stai ammazzando due uomini!

— Sono già morti — disse Larry. — Altrimenti si sarebbero fatti sentire. L’uragano è finito da due giorni.

— Può darsi che gli impianti di comunicazione siano stati danneggiati. Può darsi che siano feriti, intrappolati sotto le macerie… chissà.

— Non possono essere sopravvissuti all’uragano — ribatté Larry. — Le hai viste anche tu le scariche elettriche. È stato tutto un lampeggiare. E la velocità del vento oltrepassava addirittura qualsiasi possibilità di misurazione degli strumenti. Quelle nuvole viaggiano ancora a cinquanta chilometri all’ora. Come facciamo a sapere quali sono le condizioni atmosferiche sotto?

Le spalle di Haller s’incurvarono di colpo. — Quanto pensi che dureranno ancora le nuvole?

— Non lo sa nessuno — disse Larry. — Vengono dalla catena di vulcani dall’altra parte del mare. Potrebbe essere questione di ore o di settimane. Non lo sa nessuno.

— Dunque, ce ne staremo qui pacifici ad aspettare.

— Non possiamo fare altro.

Haller parve sul punto di dire qualcosa, ma poi si voltò bruscamente e se ne andò con passo infuriato. Lastellà indugiò un momento, incerto, poi si strinse nelle spalle e lasciò il ponte anche lui.

Larry guardò il videoschermo che presentava la superficie del pianeta, quasi interamente coperta dalle nuvole grigie. Sono morti, si disse. Non è possibile che non siano morti.

Ma se non sono morti, pensò, li stai uccidendo.

— Io devo andar via — disse bruscamente a uno degli operatori. — Se c’è bisogno di me, chiamatemi con l’interfono.

S’infilò nel corridoio che portava al suo ufficio. Ebbe un attimo di esitazione, poi entrò e andò dritto al telefono.

— Voglio Valery Loring nel mio studio, subito.

La voce impassibile dell’elaboratore disse: — Eseguito. Valery apparve sulla porta dopo dieci penosissimi minuti.

— Mi hai fatto chiamare?

Larry avrebbe voluto buttarle le braccia al collo, e stringerla a sé. Invece disse, in tono inespressivo: — Credono che voglia uccidere Dan.

— Chi lo crede?

Larry vide le sue mani agitarsi nervosamente. — Haller, Lastella, e per quel che ne so, tutti quanti su questa maledetta astronave.

Sempre ferma sulla porta, Valery chiese: — Vuoi ucciderlo?

— No, maledizione! No! Che domanda è questa?

— E allora perché hai paura di quello che pensano gli altri?

— Tu non capisci — disse Larry sottovoce. — Nessuno può capire.

— Capire cosa, Larry?

— Io sono il presidente. Ti rendi conto di cosa significa? Sono io che devo prendere le decisioni. Io, e io solo. Devo decidere se mandare Lastella sul pianeta, col rischio che rimanga ucciso. Oppure no, trattenerlo a bordo, contro la sua volontà, finché non sapremo con certezza in che condizioni è la superficie. Ma così probabilmente ucciderei Dan, se non è già morto.