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McCullough ci pensò un attimo.

— Come analogia, potrei dire che un essere straniero dovrebbe poter capire un essere umano, dai dati raccolti esaminando un babbuino. No, non credo che sia possibile. In ogni caso la lacuna intellettuale ed evolutiva tra i vostri vermi spaziali e i miei è molto più grande di quella che esiste tra l’uomo e il babbuino. Ecco perché ci costringono ad ascoltare lezioni sull’accoppiamento tra l’armadillo e le cose.

— Cose, le chiama! — Berryman fece una smorfia e cominciò a passare la colazione.

Mangiavano quasi sempre dopo una discussione sugli esseri dell’Astronave, ma Berryman e Walters avevano smesso di menzionare il legame psicologico tra il senso di insicurezza e il mangiare. L’unica persona che parlava durante i pasti era Walters.

— Sapete, dottore, dovrebbe esserci qualcosa che potete fare.

Tre giorni dopo, il dottore fu in grado di fare qualcosa. Qualcosa che solo un dottore poteva fare.

— Qui Morrison. Fatemi parlare con il dottore, prego.

— Sì — disse McCullough.

— Il capitano Hollis è malato. Ha… una irritazione della pelle, tra l’altro. Non riesce a dormire senza forti dosi di sonnifero, di cui abbiamo quasi finito la scorta. Capisco che è chiedervi molto, ma preferirei che lo veniste a visitare, anziché prescrivere una cura da dove vi trovate. Potete raggiungere il P-Uno, dottore?

McCullough guardò istintivamente verso le stelle. Non poteva vedere il P-Uno perché era visibile soltanto sullo schermo radar. L’ultima volta che lo avevano scorto si trovavano ancora in orbita attorno alla Terra. Si schiarì la gola e disse: — Sì, certo.

— Alla distanza in cui ci troviamo, c’è un certo rischio.

— Me ne rendo conto.

— Molto bene. Vi ringrazio.

Dopo aver tolta la comunicazione, Walters girò la testa e rimase qualche istante a guardare attentamente McCullough. Infine levò in aria tre dita e disse: — Uno, siete stupido. Due, siete coraggioso. Tre, vi hanno fatto il lavaggio del cervello.

4

Il tubo di lancio per il personale di bordo era formato da un cilindro in lega leggera, lungo cinque metri, composto di varie sezioni unite una all’altra e privo di qualsiasi sporgenza. Puntava in avanti, in modo da rappresentare una continuazione dell’asse dello scafo; la carica che lanciava il proiettile umano nello spazio, esercitava una identica spinta verso la parte posteriore, in modo da evitare la necessità di correzioni di rotta. In quel caso, dato che gli astronauti non potevano servirei dei sistemi di puntamento visivi, dovevano puntare l’intero scafo sul bersaglio indicato dal radar.

Berryman infilò l’imbracatura di lancio nella prima sezione del tubo, poi, mentre Walters portava a termine il puntamento, aiutò McCullough ad assumere la giusta posizione entro il bizzarro congegno. Strano che McCullough lo considerasse ora un bizzarro congegno. Sulla Terra, dopo averne studiato il meccanismo e il sistema di manovra, e dopo aver visto film dimostrativi, l’aveva considerato ingegnoso e del tutto sicuro.

L’imbracatura vera e propria era una sottile incastellatura di tubi metallici costruiti nel cilindro cavo che aderiva al tubo di lancio, con i contenitori panciuti dell’ossigeno e il sistema di propulsione da una parte e lo spazio per l’uomo dall’altra.

Una volta che l’astronauta era assicurato all’imbracatura, le braccia incrociate dietro e le gambe piegate al ginocchio, e tenuto in posizione da speciali cinghie, il congegno cominciava ad assumere un aspetto più simmetrico. Con l’uomo attaccato il centro della spinta coincideva circa con il centro di gravità. In questo modo, dopo il lancio, l’intero apparecchio aveva solo una leggera tendenza a roteare su se stesso.

— La spinta di lancio vi farà viaggiare a una velocità di circa venti chilometri all’ora — gli disse Berryman, per la terza o quarta volta. — Così, se abbiamo mirato giusto e se finirete contro il P-Uno, a questa velocità sarà come finire di corsa contro una parete. Potreste farvi male, danneggiare o lacerare la tuta, e anche provocare danni all’altro scafo.

— Non scherzate su queste cose, Berryman! Tra l’altro, finirete col renderlo nervoso.

— Non sto scherzando, colonnello — disse il pilota. Poi tornò a parlare con McCullough. — Io volevo solo consigliarvi prudenza, dottore; non volevo innervosirvi. Ricordatevi soltanto di controllare in tempo la vostra velocità rispetto all’altro scafo. Cominciate la decelerazione a circa un chilometro e mezzo di distanza, e non fermatevi troppo vicino. A questo punto vi potete spostare con i vostri motori a gas. Ne avete a sufficienza per fare tutti i movimenti che volete. Avete aria per sei ore, e il viaggio durerà circa tre ore e mezzo, dato che P-Uno si trova a settantacinque chilometri di distanza.

— Supponiamo che dopo tre ore e mezzo io non veda lo scafo — obiettò McCullough. — È molto piccolo e…

— Supposizioni pessimistiche, che si convengono a un illustre psicologo — commentò Walters torvo.

— Siete pronto a partire, dottore? — chiese Berryman. — Datemi dieci minuti per rientrare e controllare il puntamento radar. Walters, state lontano dal tubo.

Il lancio, in se stesso, fu piacevole; fu come una specie di forte spinta, che ricordò a McCullough i primi secondi di salita in un ascensore molto veloce. L’uomo si staccò dal tubo di guida e cominciò a roteare lentamente su se stesso.

Liberò rapidamente le braccia e le gambe dalle cinghie di sicurezza, e quando il P-Due tornò nel suo campo visivo, le allargò per frenare il movimento rotatorio. Walters e Berryman rimasero in silenzio, ma, attraverso la cuffia, McCullough poteva sentire il loro respiro. Rimase in silenzio anche lui. Lo scafo cambiò lentamente dimensioni. Non sembrava allontanarsi da lui, diventava semplicemente più piccolo. Il tubo di lancio venne smontato e i due piloti rientrarono nel portello prima che la distanza trasformasse lo scafo in un triangolo argenteo dai contorni confusi.

Poco prima che sparisse completamente, McCullough girò su se stesso fino a che si venne a trovare con la faccia orientata nella direzione verso cui stava andando, e cominciò a cercare lo scafo di Morrison, anche se sapeva che non lo avrebbe scorto per almeno altre due ore.

Il colonnello gli aveva suggerito di dormire e di lasciare il ricevitore aperto al massimo volume; lo avrebbe svegliato lui stesso al momento giusto. McCullough non aveva voluto seguire il consiglio per due motivi. Per prima cosa, non voleva essere intontito dal sonno durante le fasi di avvicinamento al P-Uno. Le manovre richiedevano la massima lucidità. L’altra ragione la tenne per sé. Era dovuta alla paura di svegliarsi e non trovare lo scafo, senza più la possibilità, o la speranza, di venire soccorso. Solo…

Sapeva perfettamente che il cavo di sicurezza era attaccato alla sua cintura, e che l’altra estremità non era attaccata a niente.

Ma si trattava soltanto dell’inizio…

Nelle condizioni di mancanza di peso, per tenere le braccia e le gambe distese non era necessario nessuno sforzo, e in quella posizione il movimento di rotazione su se stessi veniva ridotto al minimo. Ma, a poco a poco, la posizione cominciò a diventare scomoda, ridicola e, per qualche oscura ragione, insicura. Tutto attorno stavano sospese le stelle, luminose, vicine e stupende; ma l’oscurità che si stendeva fra loro era infinita. McCullough cercò di convincersi di essere felice di trovarsi nello spazio, assicurò a se stesso che niente lo minacciava, che non aveva motivo di essere terrorizzato, e che nessuno poteva vedere la sua paura, nel caso fosse visibile.

Era completamente solo.

Gradatamente la velocità della rotazione si fece più rapida; allora McCullough piegò rapidamente le braccia e le gambe, fino al momento in cui venne a trovarsi con le ginocchia schiacciate contro lo stomaco, e con le braccia incrociate e tirate sul petto quanto lo concedeva la presenza della tuta. Ma fu soltanto quando si rese conto di avere gli occhi serrati con forza che McCullough cominciò a domandarsi cosa gli stava succedendo con esattezza.