Fredric Brown
Le ali del diavolo
Il gioco del poker non era esattamente una religione per Gramp, ma certo era quanto di più simile alla religione lui avesse avuto per i primi cinquant’anni della sua vita. Questa era più o meno l’età di Gramp quando andai a vivere con lui e Gram. È stato molto tempo fa, in una piccola città dell’Ohio. Ricordo bene la data, perché fu poco dopo l’assassinio del presidente McKinley. Non voglio dire che ci sia stato un nesso qualsiasi tra l’assassinio di McKinley e il mio arrivo presso Gram e Gramp[1]. Soltanto che i due fatti accaddero più o meno nello stesso periodo. Io allora avevo circa dieci anni.
Gram era una brava donna. Metodista e timorata di Dio, non aveva mai toccato una carta da gioco se non occasionalmente, per mettere via il mazzo che Gramp aveva magari lasciato da qualche parte. E lo toccava sempre con cautela, quasi temendo che potesse esploderle tra le mani. Aveva comunque rinunciato, da anni, a convertire Gramp dal suo ateismo. Rinunciato “seriamente”, voglio dire. Perché di criticarlo non aveva mai smesso.
Del resto, se lei l’avesse fatto, Gramp avrebbe sentito la mancanza delle prediche e delle critiche alle quali si era ormai abituato. Io allora ero troppo giovane per capire che singolare coppia formassero quei due: l’ateo del villaggio, e la presidentessa della società missionaria metodista. Per me, allora, erano soltanto Gramp e Gram, e non c’era niente di strano nel fatto che si amassero e vivessero insieme a dispetto delle loro profonde diversità.
Forse non era molto strano, dopo tutto. Voglio dire, Gramp, sotto la sua crosta di cinismo, era un gran buon uomo. Era uno degli uomini più sensibili che avessi mai conosciuto, e dei più generosi. Diventava bisbetico soltanto quando si parlava di superstizione o religione, rifiutava persino di fare una distinzione fra le due cose, o quando si metteva a giocare a poker con gli amici, o, quanto a questo, quando si metteva a giocare a poker con chiunque, in qualsiasi luogo, e in qualsiasi momento.
Ed era anche un buon giocatore. Vinceva un po’ più di quanto non perdesse. Lui era solito dire che un decimo delle sue entrate proveniva dalle partite a poker. Gli altri nove decimi erano dati dalla fattoria che Gramp dirigeva, ai margini della città. In un certo senso, comunque, si potrebbe dire che ne usciva alla pari, perché Gram insisteva nel decimare, offrendo un decimo delle loro entrate alla chiesa metodista e alla missione.
Forse questo serviva alla coscienza di Gram per sopportare di vivere con Gramp. A questo proposito ricordo che lei si arrabbiava molto di più quando a lui capitava di perdere, che non quando vinceva. Come potesse sopportare che il marito fosse ateo, io non l’ho mai capito. Probabilmente non aveva mai creduto veramente nemmeno alle sue negazioni più dogmatiche.
Rimasi con loro circa tre anni, e dovevo averne quasi tredici quando avvenne il grande cambiamento. È passato ormai molto tempo, ma non riuscirò mai a dimenticare la sera in cui il cambiamento cominciò, la sera in cui mi capitò di sentire il pesante fruscio di ali nella sala da pranzo. La sera in cui il commerciante di semi rimase a cena con noi, e dopo giocò a poker con Gramp.
Il suo nome, non l’ho dimenticato, era Charley Bryce. Era piccolo. Ricordo che non era più alto di me, cioè poco più di un metro e mezzo. E doveva pesare oltre quaranta chili. Aveva i capelli neri tagliati corti, che partivano bassi sulla fronte e si diradavano gradatamente fino a lasciare sulla nuca una zona calva della grandezza di un mezzo dollaro d’argento. Ricordo bene questo particolare. Durante il poker rimasi per un certo tempo alle sue spalle, e mi trovai a pensare che il tondo di calvizie poteva contenere uno di quei mezzi dollari d’argento… gettoni, li chiamavano… che avevano di fronte a loro sul tavolo. Ma non ricordo affatto che faccia avesse.
Come non ricordo la conversazione che si svolse durante la cena. Con tutta probabilità parlarono sempre di semi, perché il commerciante non aveva ancora completato l’ordine di Gramp. Era arrivato nel tardo pomeriggio. Gramp era andato in città con un carico di merce, ma Gram lo aspettava di ritorno da un momento all’altro, e aveva detto al commerciante di aspettare. Gramp era poi rientrato col carro, tardissimo, e Gram aveva pregato il commerciante di restare a cena con noi. Lui aveva accettato.
Ricordo che mentre aiutavo Gram a sparecchiare, Gramp e Charley Bryce rimasero seduti a tavola. Bryce prese il blocco-commissioni e finì di annotare le ordinazioni di Gramp.
Fu dopo aver portato via gli ultimi piatti, e quando tornai per ritirare i tovaglioli, che li sentii parlare di poker per la prima volta. Non ricordo chi fosse stato a cominciare il discorso. Ma Gramp descriveva animatamente una mano avuta l’ultima volta che aveva giocato, alcune sere prima. Lo sconosciuto… forse ho dimenticato di dire che Charley Bryce era uno sconosciuto. Non lo avevamo mai visto prima di allora, e forse, dopo, fu trasferito in un’altra zona, perché non lo rivedemmo mai più… Lo sconosciuto, dicevo, stava ascoltando con interesse sorridente. No, non ricordo per niente la sua faccia, ma ricordo che sorrideva parecchio.
Presi i tovaglioli e gli allaccia-tovaglioli, in modo che Gram potesse togliere la tovaglia dal tavolo. E mentre lei piegava la tovaglia, io misi tre tovaglioli, il suo, quello di Gramp, e il mio, nei rispettivi anelli, andai a mettere quello del commerciante assieme alla biancheria da lavare. Gram aveva ripreso la sua abituale espressione. Quella dalle labbra tirate e lo sguardo ostile, che lei assumeva quando sentiva giocare o parlare di carte.
Poi Gramp domandò: — Dove sono le carte. Ma?
Gram sbuffò.
— Dove le hai messe tu, Williams — disse.
Così Gramp andò a prendere il mazzo di carte dal cassetto della credenza, dove venivano sempre riposte. Poi tolse di tasca una manciata di monete d’argento, e lui e lo sconosciuto, Charley Bryce, cominciarono una partita di poker a due, seduti ad un angolo della grande tavola da pranzo quadrata.
A questo punto io andai in cucina, per aiutare Gram ad asciugare i piatti, e quando tornai in sala da pranzo, la maggior parte delle monete d’argento si era trasferita davanti a Bryce. Gramp era andato a prendere il portafoglio, e di fronte a lui, anziché i gettoni, teneva un fascio di biglietti di banca. Allora i biglietti da un dollaro avevano un grande valore. Non erano le meschine monete di oggi.
Dopo aver finito di asciugare i piatti, rimasi a guardare la partita. Non ricordo come si siano susseguite le mani. Ricordo soltanto che i soldi vagavano avanti e indietro senza che mai nessuno riuscisse ad avere più di venti dollari di vincita o di perdita. Ricordo inoltre che a un certo momento lo sconosciuto guardò l’orologio e disse che voleva prendere il treno delle dieci, per cui desiderava finire la partita alle nove e mezzo. Gramp acconsentì.
E così fecero. Alle nove e mezzo, Charley Bryce era in vincita. Contò il denaro che aveva messo in gioco, e gli rimasero di fronte un certo numero di gettoni. Contò anche questi, e ricordo che si mise a ridere.
— Tredici dollari esatti — disse. — Tredici pezzi d’argento.
— Che vadano al diavolo — disse Gramp. Era una delle sue espressioni favorite.
Gram sbuffò.
— Se parli del diavolo — disse — finirai col sentire il fruscio delle sue ali.
Charley Bryce sorrise. Prese il mazzo di carte e lo fece scorrere tra le dita, con delicatezza.
— Un fruscio simile a questo? — domandò.
Fu a questo punto che cominciai ad avere paura.
Gram tornò a sbuffare. Comunque disse: — Sì, come quello. Ora se mi volete scusare… E tu, Johnny, faresti bene ad andare a letto.
Salì al piano di sopra.
Il commerciante ridacchiò e fece scorrere nuovamente le carte tra le dita. Più forte, questa volta. Non so se fosse per il fruscio delle carte, o per le tredici monete, o per qualche altro motivo, ma ebbi paura. Non rimasi più alle spalle del commerciante, e feci il giro della tavola. Il commerciante vide la mia faccia, e mi sorrise.
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