Fred Saberhagen
Le ali nere del tempo
1
Jake Rezner non aveva mai avuto un orologio, ma questo raramente lo preoccupava e non intendeva certo preoccuparsene adesso. Osservando con occhi socchiusi il riverbero dei primi raggi del sole mattutino, oltre una collina a oriente, si disse che anche quel giorno il sole gli avrebbe indicato l’ora in modo soddisfacente. Al massimo sarebbe tornato al campo troppo tardi per la cena: nulla di grave per lui. No, l’unica cosa a cui doveva stare attento era di non farsi sorprendere dal buio, in modo da poter seguire agevolmente i sentieri del canyon. Trascorrere la notte fuori, o comunque rientrare tanto tardi da spingere i suoi superiori a organizzare una spedizione di soccorso, significava con tutta probabilità dover rispondere a un sacco di domande su dove fosse stato.
Per Jake i sette giorni trascorsi dall’ultima domenica erano stati un vero tormento, come in prigione o come se vi fosse qualcosa di sbagliato in tutti gli orologi del campo e nel calendario appeso quella settimana, come tutte le settimane, a uno dei montanti della tenda in cui si svolgevano le riunioni di servizio.
In ogni caso, finalmente la sospirata domenica era giunta. Consumata in un batter d’occhio la frugale colazione, il giovane prese una borraccia avviandosi verso il torrente per riempirla. Acquattato sul bordo roccioso del ruscello, immerse in acqua la mano destra con il capace recipiente, generando una tale colonna di bolle d’aria da far pensare, a un ignaro osservatore, che stesse affogando un piccolo animale. La borraccia faceva parte di una generosa donazione di equipaggiamento militare, come del resto i suoi pantaloni kaki, i robusti stivali, il cappello da lavoro a falda larga e tondeggiante: tutto donato dai militari per aiutare il Ccc, il Corpo Civile di Conservazione, in quei difficili anni di depressione economica.
Il sole di quel mattino d’inizio giugno, caldo ma non bruciante, come sarebbe stato in poche ore, riluceva sulle acque cristalline del torrente, disegnando delicati arabeschi laddove l’acqua non veniva rotta da veloci turbolenze e mutata d’incanto in candida e fresca spuma. Il riflesso del sole sulle acque suggeriva una serie d’immagini in movimento: era il tipo di situazione che in una pigra domenica mattina avrebbe ispirato a Jake l’idea di sedere per un po’ dove si trovava senza pensare, a niente, proprio a niente. Ma non quella domenica. Qualsiasi cosa avesse deciso di fare, quello non sarebbe stato un giorno come gli altri. Non per lui.
Le brevi rapide che si susseguivano a monte e a valle della sua posizione generavano una serie infinita di ingannevoli rumori che gli ricordarono il mormorio di molte diverse voci. Al campo si poteva udire quel mormorio giorno e notte, ma nei giorni di lavoro trascorsi su questo o quel sentiero risultava percettibile solo a volte. Da quando era migrato a ovest per arruolarsi nel Corpo, Jake aveva scoperto che non poteva fermarsi a lungo ad ascoltare le voci di un torrente prima che queste si mutassero in parole. In quel momento le rapide a monte suonavano più forti di quelle a valle, e questo pareva quantomai naturale perché l’acqua a monte scendeva ruzzolando giù per tutta la strada dalla sorgente sul margine settentrionale, un miglio più in alto e forse dieci miglia in linea retta da quel punto. A valle invece, a non più di cinquanta metri alla sua posizione, il torrente, chiamato Bright Angel, confluiva con un’ultima serie di balzi nel grande, veloce e silente fiume Colorado proprio in fondo all’immenso Grand Canyon.
Tutte le rapide del ruscello continuarono a urlare a Jake le loro frasi immaginarie; sembravano molte persone che discutessero tra loro in qualche lingua straniera. Ma una di quelle strane parole suonò immediatamente conosciuta alle orecchie del giovane uomo: un nome di donna, il nome di una ragazza incontrata appena due settimane prima.
L’ultima bolla d’aria salì rapidamente in superficie dalla borraccia sommersa e Jake Rezner si rialzò avvitando il tappo metallico sul contenitore. Con i suoi ventidue anni, Jake era un giovane robusto e ben proporzionato, alto più di un metro e ottanta. I suoi capelli neri, portati corti da quando si era arruolato nel Corpo, mantenevano una spiccata tendenza ad arricciarsi. I suoi occhi chiari, quasi verdi, avevano qualcosa che sconcertava la maggior parte della gente; ben pochi tuttavia riuscivano a spiegare esattamente il perché. La mobilità della sua bocca sembrava collegata in qualche modo alla strana luce nei suoi occhi, come se nascessero entrambe dallo stesso tipo di energia.
Dopo aver assicurato la borraccia alla cintura militare, Jake tornò al campo riattraversando il torrente su uno stretto ponticello ai piedi del sentiero Kaibab. Salendo pigramente il ripido cammino, entrò dopo qualche minuto in quello che tutti consideravano il luogo d’incontro del campo Np 3-A del Ccc. Si trattava essenzialmente di due file di tende color kaki, venticinque in tutto, poste a qualche distanza una di fronte all’altra. Ognuna alloggiava quattro volontari. Col giungere del caldo torrido, ogni tenda aveva almeno un paio di teli sollevati per far circolare l’aria. Le tende degli ufficiali e quelle dove si svolgevano le riunioni di servizio sorgevano tutte a nordest, a monte delle altre. Le latrine, il magazzino, la cucina e il recinto dei muli erano sparsi a valle lungo il torrente. Quel giorno il recinto sarebbe rimasto con tutta probabilità vuoto: la domenica non veniva mai nessuno. Per contro, la settimana lavorativa vedeva un buon numero di arrivi e partenze perché qualsiasi cosa, tranne l’acqua, doveva venir portata a dorso di mulo dall’altopiano.
Il tipico baccano di un giorno festivo avvolse Jake. Risate, imprecazioni e discussioni coprivano solo in parte l’onnipresente voce dell’unica radio. Il cappellano militare non era sceso quella volta a officiare il Servizio della domenica: accadeva quasi sempre, perché dopotutto si trattava di farsi sette miglia a dorso di mulo sugli scomodi e stretti sentieri che si snodavano serpeggiando dall’altopiano, e qualcuna in più dalle prime quattro case che pretendevano di chiamarsi paese solo perché vi arrivava la strada.
Appena sotto il campo Np 3-A, su una spianata relativamente ampia e sgombra dove il torrente si gettava nel fiume, alcuni suoi colleghi stavano per improvvisare una partita di softball nonostante il caldo crescente. Per la maggior parte delle nuove e giovani reclute quello era un giorno in cui giocare a palla o a carte, scrivere lettere o semplicemente dormire. E forse qualcuno avrebbe tirato fuori una buona bottiglia gelosamente conservata per tutta la settimana. In genere, quando questo accadeva, gli ufficiali guardavano altrove, posto naturalmente che il giorno dopo i loro sottoposti non si facessero trovare troppo ubriachi per segnare i sentieri o per spaccare le pietre.
Con la borraccia piena assicurata fermamente alla cintura, Jake si avvicinò alla tenda sita più o meno a metà della fila e vi infilò la testa. Tre delle quattro cuccette militari erano vuote. Joe Spicci, piccolo e nodoso, alzò lo sguardo dalla quarta cuccetta dove stava leggendo con la massima attenzione un giornale sportivo della precedente domenica.
— Vado a fare un giro — annunciò Jake con qualche riluttanza. Purtroppo era meglio avvertire qualcuno che non sarebbe rientrato fino a tardi. Non voleva che si preoccupassero se non si fosse fatto vedere per la cena.
— Ah sì? E dove? — rispose Spicci, con aria interessata.
— Oh, solo una passeggiata — fu la secca replica. In quella passeggiata non voleva compagnia. — Ci vediamo a cena… o forse più tardi.
— Va bene. Tanto oggi farà troppo caldo per muoversi. Buon divertimento. — E Spicci si tuffò nuovamente nelle pagine aperte del suo giornale sportivo.
Non dovette percorrere neppure cento passi prima di lasciarsi dietro anche le ultime voci del campo. Pochi passi ancora e anche le tende sarebbero sparite dalla vista. Là in fondo alla gola il terreno mostrava solo nuda roccia, un vero deserto, ma le cose miglioravano un po’ una volta oltrepassata la grande balza sotto cui sorgevano le tende. Quell’improvvisa alzata sovrastava uomini e oggetti giorno e notte, maestosa e immobile come uno spirito benevolo avvolto in un lenzuolo; tuttavia non era altro che una modesta ondulazione del terreno a confronto delle gigantesche balze soprastanti che celavano alla vista le colorate e fantastiche stratificazioni rocciose delle pareti del canyon. Dopo quattro mesi in un campo di lavoro proprio in fondo al Grand Canyon, Jake poteva dire di conoscere un poco i dintorni, pur rifiutando di abituarvisi: impossibile considerare normale un posto come quello se uno aveva un po’ di fantasia.