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— E da noi vuole qualcosa di più che semplice lavoro.

Lei annuì in silenzio. Poi aggiunse con foga disperata: — Ma io dovevo portarti qui! Non capisci, Jake? Ho bisogno di te! Non m’importa di ciò che vuole Edgar.

Ma Jake insistette. — Però le prime due volte che ci siamo visti non mi sono ritrovato intrappolato così. Sono uscito dal Canyon Profondo e sono tornato tranquillamente al campo.

— Quelle prime due volte non mi hai seguita fino alla casa. Addentrandoti così nel Canyon Profondo hai perso la strada per uscirne, e la porta ora si è chiusa.

— Ah, è così allora! Tu sapevi, e mi hai coinvolto lo stesso in questa storia! È così, vero? — E Jake si lasciò andare a un altro insulto.

Lei annuì lentamente, in lacrime. — Non potevo fare altro. Aiutami, ti prego!

E Camilla scoppiò in un pianto dirotto. Faceva tanta pena che Jake non riuscì a essere rude con lei.

Viste le circostanze, tuttavia, non riuscì neppure a essere tenero. Almeno, non in quel momento. Lasciata Camilla in lacrime sul sofà della stanza comune della casa, Jake trascorse le ultime ore di luce correndo su e giù per il canyon senza mai veramente allontanarsi, rovistando tra rocce e cespugli. Neppure lui sapeva perché, ma aveva bisogno di trovare qualcosa, qualunque cosa che potesse collegare quel folle luogo con il mondo in cui aveva trascorso i primi ventidue anni della sua vita.

Col calar del sole, Jake provò dei veri e propri attimi di panico. Continuava a sentirsi preso in una gabbia di cui non riusciva neppure a localizzare con precisione le pareti. Già aveva esplorato per un bel pezzo il territorio a monte e a valle della casa; adesso esaminò con la massima attenzione le pareti dell’ampio anfiteatro in cui sbucava il canyon, in cerca di qualche modo per salire. Ma tranne che nel punto da cui era già salito, vicino alla cascata, sembravano davvero impossibili da scalare. Uno doveva sentirsi davvero disperato per provarci, e anche se vi fosse riuscito si sarebbe poi ritrovato su quell’impossibile versione dell’altopiano.

Ancora non si sentiva completamente vinto, ma vi erano dei momenti in cui vi andava vicino.

Il sole era sparito dietro le colline occidentali, ma la luce del giorno rischiarava ancora il cielo. Jake arrestò il suo disperato e inutile affannarsi, sperando forse in un’idea improvvisa che potesse risolvere il problema. Andarsene significava dover fare i conti con le autorità del campo per la sua improvvisa sparizione, ma quella era in effetti l’ultima delle sue preoccupazioni in quel momento.

Tornando mestamente verso la casa, Jake si fermò ancora una volta a esaminare la grotta dove Tyrrel lavorava. Osservando, attraverso l’entrata, la fila di futuristiche lampade appese alle pareti non poté evitare di provare una forte curiosità, anche se di malavoglia.

Rientrato in casa trovò la doppietta nell’angolo della sala dove Camilla l’aveva lasciata. Jake prese l’arma e l’aprì. Le due cartucce nel caricatore sembravano assolutamente normali.

Con il volto gonfio a causa del pianto, Camilla si avvicinò a lui e lo guardò in silenzio. Sembrava ansiosa di compiacerlo.

Compiendo uno sforzo, Jake le chiese con voce gentile: — Camilla, se Tyrrel è convinto di tenerci entrambi prigionieri come mai si fida tanto da lasciare in giro la doppietta?

Lei si voltò e tornò in cucina dove, Jake lo vide solo allora, stava impastando delle forme di pane. — Perché non serve a nulla contro di lui.

— Davvero? Neppure se glielo punto addosso e gli dico di lasciarci uscire se non vuole finire male?

— Oh, puoi puntarglielo addosso e dirgli tutto ciò che vuoi. Puoi anche sparargli, sai? Solo che le pallottole non gli fanno nulla. Qualcuno lo ha già fatto, e come vedi… — ribatté Camilla, fermandosi per un attimo con le mani piene di pasta e annuendo.

— Qualcuno ha sparato a quel bastardo? Con questa doppietta?

Camilla annuì nuovamente.

— E chi?

— Qualcuno che era qui ancora prima di te.

Allora lui non era il primo attratto là dentro da lei. Ba’, non gli importava un fico secco adesso. Quello era uno di quei momenti in cui Jake sentiva che dovevano per forza essere impazziti tutti e tre: lui, Camilla e quel vecchio impossibile.

— Gli ha sparato e lo ha mancato?

— Gli ha sparato e lo ha preso in pieno. Le pallottole lo hanno attraversato, strappandogli i vestiti. Ma lui è rimasto in piedi, indenne.

Jake ebbe l’impressione che Camilla avesse davvero visto la scena che stava descrivendo. Ma forse era solo convinta di averla vista. In ogni caso decise di lasciare perdere il mistero di quell’impossibile fucilata. La doppietta poteva anche restare dove l’aveva trovata, almeno per il momento.

— Stai facendo il pane, vedo. Significa forse che abbiamo ospiti per cena?

Camilla non rispose, ma continuò a lavorare la pasta con movimenti rapidi ed energici.

— Perché ti sei fatta convincere a venire qui?

— Non avevo altro posto dove andare, e incontrai Edgar in un bar di Flagstaff. Era carino… non so come, ma sembrava più giovane di molti anni. Parlava bene, Edgar. Mi raccontò che sua moglie l’aveva lasciato così, su due piedi. Non mi chiese nulla, solo se ero disposta ad andare con lui per fargli da modella. Io risposi che sì, mi andava bene, anche se mi aspettavo che volesse da me qualcosa di più: non sapevo ancora quanto avevo ragione! — E Camilla smise bruscamente di parlare.

— Come mai sua moglie è riuscita ad andarsene e noi no?

— Che ne so? Ma dopo la sua partenza, Edgar deve aver fatto in modo che nessun altro potesse mai seguirla.

— Ne parli come se fosse uno stregone.

— Non ridere. Non l’hai ancora visto all’opera.

— Oh, ci sarà tempo per questo. Comunque, dopo averti visto senza vestiti addosso ha voluto qualcos’altro da te oltre a fargli da modella.

— Inizialmente sì — replicò Camilla con un’alzata di spalle. — Ma non negli ultimi mesi. In questo periodo mi ha lasciata in pace.

— Ma davvero sei qui da più di un anno?

Lei rispose lanciandogli un’occhiata di fuoco, una volta tanto arrabbiata con lui. — Te l’ho già detto. Come posso andarmene?

In risposta ad altre domande, Camilla ammise di fare ancora delle sessioni da modella per il vecchio scultore, anche se non così spesso. — L’ultima risale a più di un mese fa.

Non appena lei terminò di impastare l’ultima pagnotta lasciando poi le forme a lievitare, Jake la convinse a seguirlo verso la caverna. Stavolta fu lui a trovare l’interruttore e ad accendere le futuristiche lampade.

E stavolta notò che vi era una rientranza nella grotta mai notata prima, un buio antro proprio sul fondo. Vi si accedeva, ammesso che quella fosse la parola giusta, attraverso un’apertura larga più o meno quanto quella della grotta in cui, secondo Camilla, Tyrrel dormiva.

— Cosa c’è là dietro?

— Non lo so, ma Edgar vi lavora sempre. Non ho idea di cosa faccia, ma è il posto in cui passa più tempo quando è sveglio.

— Hai una torcia elettrica?

— Dovrebbe essercene una sul banco di lavoro — replicò lei con un che di riluttante nella voce.

Jake trovò la torcia e l’accese, cercando di sbirciare nella cavità. Puntò la torcia, guardò… e spiccò un gran balzo all’indietro. Un oggetto in movimento aveva attraversato il cono di luce, un qualcosa di strano, una sorta di fantasma che non era riuscito a vedere bene, ma che ispirava un orrore profondo. Dominandosi, cercò di pensare. Cos’aveva visto esattamente? L’impressione era quella di una figura ben definita, grande quanto un uomo ma senza volto, senza lineamenti. Si era fermata per un attimo alla luce per poi scivolare via, come per nascondersi in qualche anfratto. Ah, ma che idiozia! La tensione lo aveva tradito. Semplicemente, si trattava di uno strano riflesso della torcia elettrica su qualche dannata roccia fosforescente, ecco tutto.