Camilla notò il suo interesse. — Vuoi entrare e dare un’occhiata? Possiamo. A Edgar non importa.
— E neppure a me — replicò lui, ma seguì Camilla quando lei vi entrò.
L’aria fresca della grotta fu la benvenuta. Una volta abituati gli occhi alla penombra, Jake poté esaminarne attentamente l’interno. Un filo di luce solare forava l’oscurità, riflessa dalle pareti di arenaria del lato opposto dell’anfiteatro.
— È il tramonto — disse Camilla. — È l’ora in cui lui…
Poi tacque bruscamente.
Ci volle un altro minuto prima che Jake si rendesse conto di una terza presenza. La figura di un uomo attendeva in piedi nella nera ombra delle regioni più interne della grotta. Stava là immobile, probabilmente guardandoli entrambi.
Jake fece del suo meglio per penetrare con lo sguardo quella zona di oscurità quasi totale. La figura indefinita era forse alta quanto lui, ma appariva storta e quasi deforme. Indossava pantaloni da lavoro, camicia e stivali di qualche tipo, e sembrava coperta fino ai capelli di polvere di roccia. Continuava a guardarli con un’immobilità quasi inumana: sembrava una statua.
Nelle dita nodose di una mano sicuramente potente, l’uomo stringeva un grosso grumo di roccia. Ancora un attimo di gelido silenzio e poi aprì le dita, lasciando cadere a terra il pesante carico. Una sorda eco si diffuse per tutta la caverna.
Un attimo più tardi quella stessa mano si tese alla ricerca di un grosso interruttore fissato alla rozza parete, e una batteria di luci elettriche illuminò l’ambiente. La mezza dozzina di lampade, montate su alti sostegni metallici un po’ in tutta la caverna, avevano una forma strana e molto, molto moderna. O forse più che moderna: in effetti Jake non aveva mai visto delle lampade così in vita sua.
Grazie alla loro luce la parte più interna della caverna, prima avvolta da tenebre impenetrabili, divenne visibile. Le lampade erano talvolta in alto e talvolta in basso, eliminando ogni zona d’ombra. E quelle lampade tanto strane rivelarono anche che il pavimento e le pareti della caverna erano butterate all’inverosimile, sfruttate probabilmente dallo scultore per ricavare i blocchi di roccia che gli servivano. Lungo un muro correva un lungo tavolo da lavoro molto rozzo, pieno di strumenti da scavatore e grumi di pallida arenaria. Le pareti, il soffitto e il pavimento della grotta erano però neri, formati da un materiale che i geologi e gli artificieri chiamavano scisto Visnù. Si trovava generalmente nello strato più basso delle pareti del Canyon, appena sotto la misteriosa Grande Discordanza. Le venature bianche che vedeva gli risultarono però del tutto nuove.
Ma nulla di tutto ciò, per quanto interessante, poteva catturare la sua attenzione per più di qualche istante. Non in presenza dell’uomo che aveva davanti.
La figura coperta di polvere volse lo sguardo su Camilla, gracchiando un commento: — Vedo che ne hai catturato un altro.
Lei rispose timidamente: — Non dire così, Edgar. Jake è solo un amico.
— Oh, non ne dubito. La maggior parte degli uomini sarebbe deliziata di esserti amico. Glielo hai già detto?
Guardando prima uno e poi l’altro, Camilla sembrò troppo impaurita per rispondere.
— Detto cosa? — chiese Jake.
Improvvisamente Edgar vide, posata su una lingua di roccia, la scatola metallica in cui Camilla aveva messo i panini. Borbottando qualcosa che suonò come una serie di insulti, afferrò il contenitore e alzò l’altra mano per schiaffeggiare la ragazza.
Urlando qualcosa, Jake balzò in avanti. Ma Camilla, ritraendosi dallo schiaffo che non arrivò, urlò a Jake di fermarsi. Fu un tale urlo di improvviso e raggelante terrore che Jake obbedì d’istinto.
Calmandosi, Jake ripeté la domanda: — Cosa doveva dirmi Camilla?
— Oh, nulla di veramente importante — replicò il vecchio. Occhi diabolici lo scrutarono attraverso la grigia polvere che gli copriva il viso. — Solo che oggi, mio giovane amico, la vita inutile e banale che hai sempre vissuto è giunta al termine.
2
Bill Burdon e Maria Torres, entrambi detective di una grande agenzia di Phoenix, arrivarono finalmente al Grand Canyon dopo un lungo e faticoso viaggio. Nessuno dei due giovani vi era mai stato prima di allora ed entrambi avevano accolto con entusiasmo la notizia dell’incarico, già pregustando panorami mozzafiato e giri turistici a dorso di mulo.
Ma i sogni oziosi svanirono dalle loro menti non appena appresero qualcosa in più sul compito che li attendeva. Il problema, come spiegò il loro capo poco prima che partissero, era una ragazza svanita nel nulla: la diciassettenne Cathy Brainard, scomparsa nel Grand Canyon circa un mese prima. Nessuno aveva mai avanzato richieste di riscatto e l’ipotesi di un rapimento non veniva più considerata plausibile. Gli agenti federali premevano per archiviare il caso e di fatto non svolgevano più indagini, ma un ricco parente della ragazza aveva preso a cuore la faccenda e il caso era passato nelle mani degli investigatori privati.
Naturalmente la scomparsa di un adolescente non era certo un fatto eccezionale, ma in quella faccenda c’era qualcosa che aveva convinto il ricco parente a rivolgersi a specialisti provenienti nientemeno che dal Michigan. Tuttavia, o il loro capo non sapeva cos’era questo qualcosa oppure aveva scelto di essere reticente a riguardo. Si limitò infatti a dire a Torres e Burdon che avrebbero ricevuto tutte le informazioni necessarie da un certo Joseph Keogh, che dirigeva l’agenzia investigativa di Chicago incaricata di ritrovare la ragazza. Keogh li attendeva all’hotel El Tovar, pochi metri dal limite meridionale del canyon e molto dentro il parco nazionale del Grand Canyon.
Qualcuno su al vertice della grande agenzia di Phoenix doveva evidentemente un favore a questo Keogh: il loro diretto superiore si era mostrato immediatamente disponibile a prestare un paio dei suoi migliori detective.
Keogh aveva chiesto un uomo e una donna atletici e intelligenti in grado di trattare con il cliente e di lavorare efficacemente in un ambiente “non urbano”, come l’aveva messa il loro capo.
La settimana di Natale era un periodo di alta affluenza turistica al Grand Canyon. Trovare una stanza per i due nuovi arrivati, per non parlare di due stanze, nei molti alberghi della zona presentò notevoli difficoltà e quindi a Bill e Maria venne detto di portarsi i sacchi a pelo. Probabilmente potevano dormire, se ne avevano il tempo, nell’appartamento o nella suite di questo Keogh all’El Tovar, un alloggio presumibilmente già utilizzato da chiunque lo affiancasse da Chicago. Be’, Bill veniva dai marine e Maria dai reparti ausiliari dell’esercito, ed entrambi avevano seguito corsi intensivi di sopravvivenza: dormire nel sacco a pelo nella suite di un albergo a quattro stelle non li turbò certamente più di tanto.
Bill e Maria non avevano mai lavorato insieme, e al momento di iniziare il viaggio di cinque ore che li avrebbe portati a destinazione da Phoenix non erano altro che semplici colleghi. Ma già al momento di lasciare l’autostrada 40 a Flagstaff e prendere la strada statale che conduceva a nord, verso il canyon, i rapporti tra loro si erano fatti più personali, più caldi: su un gran numero di persone e di faccende la pensavano esattamente allo stesso modo.
La luce del sole mattutino e il caldo primaverile erano rimasti nel basso e desertico altopiano che formava il sud dell’Arizona, dietro di loro ormai da qualche ora. Una volta passata Flagstaff con la macchina di Burdon, si trovarono a più di duemila metri sul livello del mare in un freddo e grigio pomeriggio invernale. Chiazze di neve comparvero qua e là attraverso la fitta foresta di abeti a lato della strada, mentre il cielo color piombo lasciava intuire che presto ne sarebbe arrivata altra.