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— Quello che non mi spiego, — continuò il cane, — è che il Visconte Ciliegino faccia comunella con gente di così bassa estrazione, dimenticando i doveri del suo rango.

Pomodoro corse subito a svegliare il Principe e le Contesse e diede loro la terribile notizia. Le Contesse avrebbero voluto tornare subito al Castello, ma il Principe osservò:

— I divertimenti di questa notte hanno molto menomato la efficienza del mio esercito. Non possiamo tentare un assalto notturno. Attenderemo l'alba.

Fece chiamare don Prezzemolo, che era forte in aritmetica, e gli fece fare il conto delle forze che rimanevano dopo il salasso provocato dai fuochi d'artificio. Don Prezzemolo si armò di gesso e lavagna e fece il giro delle tende, segnando una croce per ogni soldato e una doppia croce per ogni dignitario di corte o generale. Risultò che restavano diciassette Limoncini e quaranta generali circa, più Pomodoro, don Prezzemolo stesso, il Principe Limone, le Contesse, Carotino, Segugio e i cavalli.

Pomodoro non vedeva l'utilità dei cavalli, ma don Prezzemolo fece osservare che negli assedi i reparti di cavalleria sono molto utili. Si accese una discussione strategica, alla fine della quale il Principe Limone, sinceramente conquistato, affidò a don Prezzemolo il comando di un reparto di cavalleria.

Il piano di battaglia fu studiato con l'aiuto di Mister Carotino, elevato per l'occasione al rango di Consigliere Militare Straniero.

Per prima cosa egli consigliò che tutti si tingessero le facce di nero, per spaventare gli assediati. Il Principe fece stappare molte bottiglie e con i turaccioli bruciacchiati si divertì egli stesso a tingere le facce dei suoi generali.

— Quale onore per noi! — dicevano i generali inchinandosi. Il Principe approfittava di quell'inchino per tingergli anche il collo.

Allo spuntar del sole l'operazione della tintura era felicemente ultimata. Il Principe appariva molto soddisfatto e insistette per tingere di nero anche Pomodoro e le Contesse.

— La situazione è molto grave, — ammonì, — e inoltre non abbiamo adoperato tutti i turaccioli.

Le Contesse si rassegnarono con le lacrime agli occhi. L'attacco cominciò alle sette precise.

Capitolo XXII

Il Barone vola senz'ali e schiaccia venti generali

Secondo il piano d'attacco, il cane Segugio, approfittando dell'amicizia naturale che lo legava al cane Mastino, avrebbe dovuto farsi aprire da quest'ultimo il cancello del parco: e dietro a lui sarebbero penetrati, alla carica, gli squadroni di cavalleria comandati da don Prezzemolo.

Questa prima parte, però, fallì in pieno, perché il cancello non era per niente chiuso, anzi, era spalancato, e Mastino, in posizione di attenti sulla soglia, presentava le armi, ossia la coda.

Segugio tornò indietro spaventatissimo e riferì lo strano avvenimento.

— Qui gatta ci cova, — disse Mister Carotino, usando una espressione cara ai Consiglieri Militari Stranieri.

— Molte, molte gatte ci covano, — rinforzò Segugio.

— Dove le avranno prese? — domandò il Principe?

— Che cosa?

— Tutte queste gatte.

— Altezza, non si tratta di felini. Se hanno lasciato aperto il cancello, ci dev'essere un trabocchetto.

— Allora entreremo dal di dietro, — decise il Principe.

Ma anche il cancello posteriore era aperto. Gli strateghi del Principe non sapevano che pesci pigliare. Il Principe cominciava a essere stufo di quella guerra.

— Dura troppo, — diceva, lamentandosi con Pomodoro, — è troppo lunga e troppo difficile. Se l'avessi saputo prima, non l'avrei nemmeno cominciata.

Infine decise di compiere un atto di valore personale. Mise in fila i suoi quaranta generali e ordinò:

— Att-enti!

I quaranta generali scattarono come un solo caporale.

— Avanti, march! — Uno, due, uno, due…

II cancello fu oltrepassato e l'eroico plotone marciò verso il Castello, che come sapete, si trovava un po' in cima alla collina. La salita era abbastanza faticosa. Il Principe cominciò a sudare e tornò indietro, lasciando il comando a un Limone di prima classe.

— Continuate voi, — disse, — io vado a preparare l'attacco generale. Ormai la prima linea, grazie al mio intervento personale, è stata sfondata.

Il Limone di prima classe gli presentò le armi e prese il comando. Fatti dieci passi, ordinò cinque minuti di riposo. Stava per ordinare l'attacco finale — ormai il Castello distava sì e no cento metri — quando si udì un boato tremendo e un proiettile di proporzioni mai viste cominciò a rotolare giù per la china, in direzione dei quaranta generali. I quali, senza aspettare comandi, fecero dietrofront e si ritirarono verso il basso a tutta velocità. La loro velocità, però, era molto inferiore a quella della misteriosa valanga, che in pochi secondi fu loro sopra, ne schiacciò una ventina come se fossero prugne mature e continuò a precipitare a valle: attraversò il cancello, respinse la cavalleria di don Prezzemolo che si preparava all'attacco e rovesciò il calesse delle Contesse del Ciliegio.

Quando si arrestò, si vide che non si trattava di una mina magnetica o di una botte di dinamite, ma dello sventurato Barone Melarancia.

— Cugino carissimo! — gridò affettuosamente Donna Prima, accorrendo verso di lui impolverata e scarmigliata.

— Signora, non ho l'onore di conoscervi. Non sono mai stato in Africa.

— Ma sono io, Donna Prima.

— O cielo, ma che cosa vi è saltato in mente di tingervi di nero?

— E' stato per ragioni strategiche. Ma voi piuttosto, come mai siete piombato giù a quel modo?

— Sono venuto in vostro soccorso. In un modo un po' violento, lo ammetto. Ma non avevo altra scelta. Ci ho messo tutta la notte a liberarmi dalla cantina, dove quei banditi mi avevano rinchiuso. Figuratevi che ho rosicchiato la porta con i denti.

— Avrete rosicchiato una mezza dozzina di botti, — borbottò Pomodoro, livido.

— Una volta giunto all'aperto, mi sono lasciato rotolare giù per la china, travolgendo una tribù di negri, certamente assoldata da quei briganti per occupare il Castello.

Quando Donna Prima gli spiegò che si trattava di quaranta generali, il povero Barone non riusciva a darsi pace, ma in fondo si sentiva orgoglioso della propria forza.

Il Principe Limone, che aveva finito di prendere il bagno nella sua tenda proprio in quel momento, nel costatare le perdite del suo esercito credette che il nemico avesse fatto una sortita e fu molto contrariato quando gli fecero osservare che il disastro era stato prodotto da un alleato pieno di buone intenzioni.

— Io non ho firmato alleanze con nessuno. Le mie guerre le combatto da solo, — disse sdegnosamente. E radunate le truppe che gli restavano — tra generali, soldati e generi diversi una trentina di uomini — fece questo discorso:

— Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io.

I Principi non apprezzano l'amicizia. Così riescono sempre ad avere amici pericolosi, e allora si consolano citando proverbi che non hanno né capo né coda.

Dopo un quarto d'ora fu lanciato un secondo attacco. Dieci uomini scelti marciarono di corsa su per la salita, lanciando urla selvagge per spaventare almeno i bambini e le donne che si trovavano tra gli assediati. Essi furono accolti con molta cortesia, anzi, con troppa. Cipollino aveva fatto applicare potenti pompe da incendio ai tini più panciuti della cantina. Quando gli assaltatori furono a tiro ordinò:

— Vino!

— Avrebbe dovuto ordinare fuoco! — osserveranno i soliti critici militari; ma quelle erano pompe per spegnere il fuoco, non per accenderlo.

Gli assaltatori furono innaffiati dai robusti getti rossi e profumati. Il vino entrava loro nella bocca e nel naso, minacciando di affogarli: era vino buono, ma il troppo stroppia.