— Frustate il mio, Altezza! — gridavano i Limoni per fargli piacere.
Il Principe frustava a più non posso.
I cavalli, impazziti dal terrore, piegavano le zampe che pareva si dovessero spezzare.
Quel gioco crudele era stato inventato dal Principe, perché, diceva lui:
— Tutti i cavalli sono capaci di correre se gli sciogliete la briglia! Io voglio vedere quello che sono capaci di fare se li tenete fermi.
In verità, gli piaceva frustare i cavalli, e organizzava quelle feste per sfogarsi.
La gente inorridiva, ma era costretta ad assistere al feroce spettacolo, perché se il Principe aveva deciso che la gente si divertisse, la gente doveva divertirsi per forza.
A un tratto rimase con la frusta alzata, mentre gli occhi gli uscivano dalla testa. Le gambe cominciarono a tremargli, il suo viso divenne più giallo che mai, e sotto il berretto giallo i capelli si rizzarono, tanto che il campanello d'oro squillò disperatamente.
II povero Principe aveva visto la terra aprirsi davanti ai suoi piedi.
Prima si era formata una crepa, poi un'altra, poi era apparsa una gobba in mezzo al selciato, una gobba di terriccio come quelle che in campagna le talpe innalzano in un batter d'occhio. In fine la gobba si spaccò, la spaccatura si allargò, comparve una testa, due spalle, e un piccolo vivace personaggio balzò fuori dalla terra, aiutandosi con i gomiti e con i ginocchi: Cipollino!
Si udì la voce nasale della Talpa che gridava spaventata:
— Cipollino, torna indietro, abbiamo sbagliato strada!
Ma Cipollino non l'udiva nemmeno. A trovarsi davanti la faccia sudata e spaventata del Principe Limone, che brandiva la frusta col braccio alzato, immobile come una statua di sale, il cuore gli aveva dato un balzo.
Senza riflettere a quel che faceva, si avvicinò al Governatore e gli strappò di mano la frusta. La brandì e la fece schioccare per aria un paio di volte, come per provarla, poi l'abbassò con violenza sulle spalle del Principe Limone, che era troppo atterrito per scansarsi, e si prese la frustata sulla schiena.
— Ahi! — gridò il Governatore.
Cipollino alzò la frusta e l'abbassò di nuovo. Allora il Governatore si voltò e fuggì via a gambe levate.
Quello fu il segnale. Dietro a Cipollino comparvero come per incanto i prigionieri fuggiti dall'ergastolo e la folla li riconobbe uno dopo l'altro con grida di gioia. Il padre riconosceva il figlio, la sposa riconosceva il marito.
In un momento i Limoncini furono sopraffatti, la folla si riversò nel corso e prese sulle spalle i prigionieri per portarli in trionfo.
I Limoncini di corte, spaventatissimi, tentarono di scappare. Ma i carri, come sapete, erano frenati, e non si muovevano di un palmo: così i Limoni furono presi e legati come salami.
II Principe Limone, invece, aveva fatto in tempo a balzare sulla sua carrozza, che, non partecipando alla corsa, non era frenata, e potè allontanarsi velocemente. Non pensò nemmeno di recarsi al suo Palazzo, e prese invece la strada dei campi, picchiando i cavalli con un bastone per farli galoppare più in fretta. I cavalli, ubbidienti, galopparono tanto in fretta che la carrozza si rovesciò, e il Principe Limone andò a ficcarsi a testa in giù in un letamaio.
— Un posto adatto per lui, — avrebbe detto Cipollino se lo avesse potuto vedere.
Capitolo XXVIII
Pomodoro mette una tassa sui temporali e la nebbia bassa
Proprio mentre in città si svolgevano le grandi corse dei cavalli frenati, in una sala del Castello del Ciliegio, che fungeva da aula del Tribunale, Pomodoro aveva fatto convocare gli abitanti del villaggio per decidere una causa molto importante.
Presidente, manco a dirlo, era lo stesso Pomodoro. Avvocato il sor Pisello. Don Prezzemolo fungeva da usciere, e scriveva le risposte in un registro con la mano sinistra, per poter continuare a soffiarsi il naso con la destra.
La gente era abbastanza spaventata, perché ogni volta che si radunava il Tribunale erano guai. L'ultima volta, per esempio, il Tribunale aveva deciso che l'aria era proprietà delle Contesse del Ciliegio, e che quindi si dovesse pagare per respirare. Una volta al mese Pomodoro faceva il giro delle case, faceva respirare profondamente in sua presenza i cittadini e prendeva le misure del loro respiro: poi faceva alcune moltiplicazioni e concludeva fissando la cifra della tassa.
Il sor Zucchina, che come sapete sospirava continuamente, era quello che pagava più di tutti.
Il Cavalier Pomodoro prese per primo la parola e disse:
— Negli ultimi tempi le entrate del Castello sono state piuttosto scarse. Come sapete, le due povere vecchie signore, orfane di padre, di madre e di zii, sono nella più squallida miseria, e si trovano nella triste necessità di mantenere anche il Duchino Mandarino e il Barone Melarancia, per non lasciarli morire di fame.
Mastro Uvetta lanciò un'occhiataccia al Barone, che sedeva in un angolo con gli occhi chiusi, e assaporava mentalmente una lepre in salmi con contorno di passerotti.
— Qui non si danno occhiatacce, — ammonì severamente Pomodoro, — smettetela di guardare a quel modo altrimenti faccio sgomberare l'aula.
Mastro Uvetta si affrettò a guardare la punta delle proprie scarpe.
— Le nobili Contesse, nostre amate padrone, hanno dunque presentato richiesta scritta in carta da bollo per ottenere il riconoscimento di un loro importante diritto. Avvocato, date lettura del documento.
Il sor Pisello si alzò, si schiarì la voce, gonfiò il petto con aria d'importanza e cominciò a leggere:
— "Le qui segnate Donna Prima e Donna Seconda Del Ciliegio ritengono che, essendo padrone dell'aria, devono essere riconosciute anche padrone della pioggia. Esse chiedono perciò a tutti i cittadini il pagamento di una tassa di cento lire per un acquazzone semplice, di duecento lire per un temporale con tuoni e lampi, di trecento lire per una nevicata e di quattrocento lire per una grandinata. Per rugiada, nebbia alta e bassa, brina, la tassa e ridotta a lire cinquanta. Seguono le firme."
Il sor Pisello si sedette. Il Presidente domandò:
— Sono in regola le carte da bollo?
— Sì, signor Presidente, — rispose il sor Pisello, balzando nuovamente in piedi.
— Benissimo, — concluse Pomodoro, — se le carte da bollo sono in regola le Contesse hanno ragione, e questo Tribunale si ritira I per pronunciare la sentenza.
Il Cavaliere si alzò, raccolse la toga nera che gli era scivolata dalle spalle e si ritirò in uno stanzino per stendere la sentenza del Tribunale.
Pero Pera diede una leggera gomitata al suo vicino, Pirro Porro, e bisbigliò timidamente:
— Trovate giusto che si debba pagare anche per la grandine e per la nebbia? Capisco per la pioggia e per la neve, che recano vantaggio alla campagna. Ma una grandinata è già una bella sventurata sola, ed ecco che proprio sulla grandine mettono la tassa più alta. E la nebbia non provoca forse un gran numero di disastri per terra e per mare?
Pirro Porro non rispose. Continuava a lisciarsi nervosamente i baffi, aiutato dalla moglie che così sfogava la bile.
Mastro Uvetta si cercò in tasca una lesina per grattarsi la testa, ma si ricordò che prima di entrare in aula aveva dovuto consegnare le armi. Don Prezzemolo non perdeva d'occhio l'aula e segnava continuamente a verbale:
«Pero Pera ha bisbigliato. Pirro Porro si liscia i baffi. Sora Zucca sbuffa. Il sor Zucchina sospira due volte».
Faceva proprio come quegli scolari che la maestra manda alla lavagna per fare la spia ai compagni, e mentre lei è in corridoio a parlare con le sue colleghe scrivono i nomi dei buoni e dei cattivi.