Выбрать главу

Nella colonna dei buoni, don Prezzemolo scrisse:

«Il Duchino Mandarino e buono. Il Barone Melarancia è buonissimo. Sta mangiando il trentaquattresimo passerotto».

— Ali, — pensava Mastro Uvetta, — se ci fosse qui Cipollino, certe cose non succederebbero. Da quando Cipollino è in prigione, siamo trattati come schiavi, senza mai poter aprir bocca, per paura che don Prezzemolo ci segni nel suo libraccio.

Difatti quelli che don Prezzemolo segnava nella colonna dei cattivi, dovevano poi pagare la multa. Mastro Uvetta pagava quasi una multa al giorno, e certi giorni perfino due.

Finalmente la Corte, ossia Pomodoro, rientrò nell'aula delle udienze.

— In piedi! — ordinò don Prezzemolo, il quale però rimase seduto.

— Vi do lettura della sentenza, — disse il Cavaliere. — Eccola: "Il Tribunale riconosce che le Contesse hanno il diritto di far pagare l'affitto sulla pioggia e sulle altre intemperie. Però stabilisce quanto segue: ogni cittadino dovrà versare all'Amministrazione del Castello il doppio di quanto le Contesse hanno chiesto."

La sala fu percorsa da un mormorio.

Tutti guardarono spaventati fuori delle finestre, sperando di vedere il cielo sereno. Purtroppo invece, videro che stava avvicinandosi un temporale.

— Mamma mia, — pensò Mastro Uvetta, — ecco quattrocento lire da pagare.

— Maledizione alle nuvole.

Anche Pomodoro guardò fuori della finestra, e la sua faccia grassa e rossa si spianò in un bellissimo sorriso.

— Eccellenza, — gridò il sor Pisello, — siamo fortunati. Il barometro si abbassa. Avremo certamente cattivo tempo.

Tutti gli lanciarono un'occhiata di odio, meritandosi un brutto segno da don Prezzemolo, che non ne perdonava una.

Quando il temporale scoppiò davvero, di lì a qualche minuto, il sor Pisello si mise addirittura a saltare sul banco del Presidente e Mastro Uvetta, con tutta la sua rabbia, dovette accontentarsi di guardare più fissamente la punta delle proprie scarpe per non beccarsi un'altra multa.

La povera gente del villaggio guardava la pioggia che cadeva come avrebbe guardato il finimondo. I tuoni gli parevano altrettante cannonate. I lampi, era come se gli scoppiassero nel cuore.

Don Prezzemolo si bagnò la matita copiativa sulla lingua e cominciò rapidamente a calcolare quanto ci guadagnava, con tutta quella grazia di Dio, l'Amministrazione del Castello. Ne venne fuori una bella cifra, e contando anche le multe addirittura un piccolo patrimonio.

La sora Zucca cominciò a piangere, e la moglie di Pirro Porro la imitò subito, bagnando da cima a fondo i baffi di suo marito, che adoperava per asciugarsi gli occhi.

Pomodoro si arrabbiò moltissimo e li cacciò tutti fuori dell'aula.

I poveretti uscirono sotto l'acqua e s'incamminarono giù per la discesa senza nemmeno affrettare il passo. Non gli importava niente di bagnarsi e di prendersi un raffreddore. Quando uno ha un male grosso, quelli piccoli non li sente nemmeno.

Prima di arrivare al villaggio c'era un passaggio a livello, e i nostri dovettero fermarsi, perché stava per arrivare il treno. Veder passare il treno al passaggio a livello è sempre uno spettacolo interessante. Si vede la macchina venire avanti sbuffando e gettando fumo dai fumaioli. Nella sua cabina il macchinista, con un fiore in bocca, tira allegramente la cordicella del fischio. Ai finestrini si affaccia la gente che è stata alla fiera, i contadini col tabarro, le contadine col fazzoletto nero in testa. Sull'ultimo vagone…

— Giusto cielo, — esclamò la sora Zucca, — guardate un po' sull'ultimo vagone.

— Si direbbe, — arrischiò timidamente il sor Zucchina, — si direbbero orsi.

Tre orsi stavano affacciati ai finestrini e guardavano con interesse il paesaggio.

— Questa non si è mai vista, — dichiarò Pirro Porro, mentre i baffi gli si sollevavano per la sorpresa.

Uno dei tre orsi li salutava con grandi gesti.

— Villano screanzato, — gli gridò dietro Mastro Uvetta, — hai anche la faccia tosta di prenderci in giro.

Macché, l'orso continuava a salutarli, e anche quando il treno fu passato, si sporgeva dal finestrino agitando la zampa e si sporse tanto che fu per cadere. Per fortuna gli altri due orsi lo afferrarono per la coda e lo tirarono dentro.

I nostri amici giunsero davanti alla stazione proprio mentre il treno si fermava. Ed ecco di nuovo i tre orsi, che uscivano dondolandosi gravemente. Il più anziano dei tre consegnò i biglietti al facchino.

— Sono tre orsi saltimbanchi, — disse con disprezzo Mastro Uvetta, — sono venuti certamente con l'intenzione di dar spei tacolo. Ora si vedrà il domatore. Sono sicuro che si tratta di uno di quei vecchi tedeschi con la barba rossa e con un piffero di legno.

Il domatore invece era piccoletto, aveva un berrettino verde, un paio di pantaloni blu pezzati sul ginocchio… un musetto vispo e intelligente, con l'espressione di chi ne sta pensando uni bella.

— Cipollino! — gridò Mastro Uvetta mettendosi a correre. Era proprio Cipollino, che prima di tornare in campagna era passato allo zoo ed aveva liberato la famiglia degli orsi. Il guardiano era stato tanto contento di rivederlo, che gli avrebbe regalato anche l'Elefante, se l'avesse voluto.

Ma l'Elefante non volle credere che c'era stata la Rivoluzione e rimase nella sua stalla, a scrivere le sue memorie.

Figuratevi gli abbracci, i baci, i racconti, eccetera eccetera.

E tutto sotto la pioggia, questo è il bello: quando uno è contento, i piccoli guai non gli importano niente, e non gli importa niente se prende il raffreddore.

Pero Pera continuava a stringere la zampa all'orsacchiotto più giovane, balbettando commosso:

— Vi ricordate quando avete ballato al suono del violino? L'orsacchiotto se ne ricordava e cominciò subito a ballare mentre i ragazzi battevano le mani.

Naturalmente Ciliegino fu subito avvisato del ritorno di Cipollino: e giù altri abbracci e baci a non finire.

— Adesso basta con le feste, — disse ad un certo punto Cipollino, — debbo esporvi un piccolo piano.

Mentre Cipollino espone il suo piano, andiamo un po' a vedere che ne è stato del Principe Limone.

Capitolo XXIX

Qui Limone per la paura cambia le leggi di natura

Abbiamo lasciato il Governatore con la testa infilata in un letamaio, con la scusa che ci stava comodo.

— Qui si sta caldi e tranquilli, — diceva il Governatore, sputando il letame che gli entrava in bocca.

— Resterò qui finché le mie guardie avranno ripristinato l'ordine pubblico.

Essendo scappato senza voltarsi indietro, non sapeva nemmeno che le sue guàrdie avevano tagliato la corda, che i suoi Limoni riempivano le prigioni e che era stata proclamata la Repubblica.

Quando la pioggia cominciò ad innaffiargli abbondantemente il di dietro, il Principe cambiò idea:

— Questo posto è umido, — disse, — è meglio che me ne cerchi uno più asciutto.

Raddoppiò gli sgambettamenti e infine gli riuscì di tirarsi fuoii dal letamaio.

Allora si accorse di essere a pochi passi dal Castello del Ciliegio.

— Come diavolo sono venuto a finir qui? — si domandò, nel tandosi gli occhi dal letame.

Si nascose dietro un pagliaio per lasciar passare una strana processione di gente — e voi sapete di chi si trattava — poi si avviò su per la salita. Suonò il campanello e Fragoletta gli venne ad aprire.

— Le Contesse non ricevono mendicanti, — disse la fanciulla sbattendogli la porta sul muso.

— Ma quale mendicante, io sono il Governatore!

Fragoletta lo guardò con compassione: