— Una sorsatina? Ma io ve ne dò una mezza dozzina di bottiglie! — rispose Cipollino.
Figuratevi la gioia di Mastino: non la finiva più di ringraziare il ragazzo, gli leccava le ginocchia dimenando la coda come non avrebbe fatto nemmeno per le sue padrone, le Contesse del Ciliegio. Cipollino gli porse la bottiglia. Il cane se l'attaccò alle labbra e bevve, la bevve tutta fino in fondo con una sola sorsata e stava per dire:
— E' già finita? Non mi avevate detto che era una bottiglia miracolosa?
Ma non fece in tempo a dirlo e cadde addormentato.
Cipollino lo slegò dalla catena, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso il Castello. Si voltò indietro ancora una volta a guardare il sor Zucchina che ripigliava possesso della sua casuccia: nel finestrino, la faccia del vecchietto, con la sua barba rossiccia spelacchiata, sembrava il ritratto della felicità.
— Povero cagnaccio! — pensava Cipollino camminando verso il Castello. — Te l'ho dovuta fare. Chissà se mi ringrazierai ancora per l'acqua fresca, quando ti sveglierai.
Il cancello del parco era aperto. Cipollino posò il cane sull'erba, lo accarezzò dolcemente e disse:
— Scusami tanto, e salutami il Cavalier Pomodoro.
Il Mastino rispose con un mugolio felice: stava sognando di nuotare in un laghetto in mezzo alle montagne, un laghetto di acqua fresca e dolcissima, e nuotando beveva a sazietà, diventava d'acqua lui pure, un cane d'acqua, con due orecchie d'acqua e una coda d'acqua zampillante.
— Sogna in pace, — disse Cipollino. E tornò al villaggio.
Capitolo V
Signori ladri, prima di entrare il campanello vogliate suonare
Al villaggio Cipollino trovò molta gente radunata attorno alla casa del sor Zucchina a discutere. A dire la verità, erano tutti piuttosto spaventati.
— Che farà ora il Cavaliere? — si domandava il professor Pero Pera con aria preoccupata.
— Io dico che questa storia finirà male. In fin dei conti, loro sono i padroni e loro comandano, — osservò la sora Zucca. La moglie di Pirro Porro le diede subito ragione, afferrò il marito per i baffi come se fossero due redini e fece:
— Arrì là! Torniamo a casa, prima che succedano altri guai. Anche Mastro Uvetta crollava il capo.
— Pomodoro è rimasto beffato due volte: ora si vorrà vendicare, — disse.
L'unico a non preoccuparsi era il sor Zucchina: aveva cavato di tasca i più bei confetti che si fossero mai visti e ne offriva a tutti per festeggiare l'avvenimento. Cipollino prese un confetto, lo succhiò ben bene, poi disse:
Sono anch'io del parere che Pomodoro non si arrenderà tanto presto.
— Ma allora… — cominciò Zucchina, sospirando. Tutta la sua felicità era scomparsa come il sole quando passa una nuvola.
— Allora, la mia idea è questa. Non c'è che una cosa da fare: nascondere la casa.
— Nascondere la casa?
— Appunto. Se fosse un gran palazzo non lo direi nemmeno, ma una casa tanto piccola non si farà fatica a nasconderla. Scommetto che ci sta tutta sul carretto del cenciaiolo.
Fagiolino, che era il figlio del cenciaiolo, scappò subito a casa e tornò di lì a poco col carretto.
— Qua sopra? — domandò Zucchina, preoccupato che la sua casetta potesse andare in pezzi.
— Ci starà benissimo, — sentenziò Cipollino.
— E dove la portiamo?
— Si potrebbe, — propose Mastro Uvetta, — si potrebbe nasconderla nella mia cantina, per intanto. Poi si starà a vedere.
— E se Pomodoro lo viene a sapere?
Tutti guardarono dalla parte del sor Pisello, che passava di lì fingendo di essere in un altro posto. L'avvocato arrossì e si affrettò a giurare e spergiurare:
— Da me Pomodoro non saprà mai nulla. lo non sono una spia, sono un avvocato.
— In cantina sarà umido: la casa potrebbe sciuparsi, — obiettò timidamente il sor Zucchina. Perché non la nascondiamo nel bosco?
— E chi la custodirà? — domandò Cipollino.
— Io conosco un tale, — disse Pero Pera, — che abita nel bosco, il sor Mirtillo. Si potrebbe provare ad affidargli la casa per qualche tempo. Poi si vedrà.
Decisero di provare. In tre minuti la casina fu caricata sul carretto del cenciaiolo: il sor Zucchina la salutò con un ultimo sospiro e andò a riposarsi di tante emozioni a casa della sora Zucca, che era sua nipote.
Cipollino, Fagiolino e il professore si diressero verso il bosco, spingendo il carretto senza nemmeno fare troppa fatica: la casetta non pesava più di una gabbia per i passeri.
Il sor Mirtillo abitava in un riccio di castagna dell'anno prima: un bel riccio grosso e spinoso, dove il sor Mirtillo ci stava comodissimo, lui e le sue ricchezze, che consistevano in una mezza forbice, una lametta per la barba, un ago con una gugliata di cotone e una crosta di formaggio.
Appena ebbe sentito la proposta si spaventò moltissimo: l'idea di abitare in una casa così grande gli dava i brividi.
— Non accetterò mai, non è possibile. Che cosa me ne laccio di un palazzo come quello? Io sto bene nel mio riccio. Sapete come dice il proverbio? Sto nel mio riccio e non me ne impiccio.
Però quando ebbe sentito che si trattava di fare un piacere al sor Zucchina, accettò di buon cuore:
— Ho sempre avuto simpatia per quell'ometto. Una volta l'ho avvisato che un bruco gli camminava sulla schiena: capirete, gli ho quasi salvato la vita.
La casina fu sistemata accanto al tronco di una quercia: Cipollino, Fagiolino e Pero Pera aiutarono il sor Mirtillo a trasportarvi tutte le sue ricchezze, poi se ne andarono, promettendogli di tornare presto con buone notizie.
Appena rimasto solo, il sor Mirtillo cominciò ad aver paura dei ladri.
— Adesso che ho una grande casa, — si diceva, — verranno certamente a derubarmi. Chissà, forse mi ammazzeranno nel sonno, sospettando che io nasconda chissà quali tesori.
Pensa e pensa, decise di mettere un campanello sulla porta e sotto il campanello un cartellino sul quale scrisse, in stampatello, queste parole:
I SIGNORI LADRI SONO PREGATI DI SUONARE QUESTO CAMPANELLO.
SARANNO FATTI ACCOMODARE E VEDRANNO CON I LORO OCCHI CHE QUI NON C'È NIENTE DA RUBARE.
Una volta scritto il cartello, si sentì più tranquillo e, essendo già il a montato il sole, andò a dormire.
Verso la mezzanotte fu svegliato da una scampanellata.
— Chi va là? — domandò, affacciandosi al finestrino.
— Siamo i ladri, — rispose un vocione.
— Vengo subito, abbiano pazienza che mi infilo la vestaglia, — fece il sor Mirtillo, premuroso.
Si infilò la vestaglia, andò ad aprire la porta e li invitò a guardare in tutta la casa. I ladri erano due giganti grandi e grossi, con certe barbacce scure che facevano paura. Cacciarono la testa in casa — uno per volta, per non darsi le zuccate— e si convinsero presto che non c'era niente da portar via.
— Avete visto, signori? Avete visto? — gongolava il sor Mirtillo, fregandosi le mani.
— Già… già… — grugnirono i due ladri, piuttosto scontenti.
— Dispiace anche a me, mi credano, — continuò Mirtillo. Intanto, se posso favorirli in qualche cosa… Vogliono farsi la barba? Ho una lametta, qui. Un po' vecchia, si capisce: è un'eredità del mio bisnonno. Ma credo che tagli ancora.
I due ladri accettarono. Si tagliarono alla meglio la barba con la lametta arrugginita e se ne andarono, con molti ringraziamenti. In fondo erano due brave persone: chissà perché facevano il ladro di mestiere!
II sor Mirtillo tornò a letto e si riaddormentò.
Verso le due di notte fu svegliato una seconda volta da una scampanellata. C'erano altri due ladri, e lui li fece entrare: a turno, si capisce, per non sfondare la casa. Questi non avevano la barba, però uno di loro aveva perso tutti i bottoni della giacca: il sor Mirtillo gli regalò l'ago e il filo e gli raccomandò di guardare sempre per terra quando andava in giro.