Capitolo II
Come fu che il sor Zucchina fabbricò la sua casina
— Quell'uomo, — domandò Cipollino, — che cosa vi è saltato in testa di rinchiudervi là dentro? Io, poi, vorrei sapere come farete a uscire.
— Oh, buongiorno, — rispose gentilmente il vecchietto — io vi inviterei volentieri, giovanotto, e vi offrirei un bicchiere di birra. Ma qui dentro in due non ci si sta, e poi a pensarci bene non ho nemmeno il bicchiere di birra.
— Per me fa lo stesso, — disse Cipollino, — non ho sete. La vostra casa è tutta qui?
— Sì, — rispose il vecchietto, che si chiamava sor Zucchina, — è un po' piccola, ma fin che non tira vento va abbastanza bene.
Il sor Zucchina aveva appena finito il giorno prima di costruirsi la sua casetta. Dovete sapere che fin da ragazzo egli si era fissato in testa di avere una casa di sua proprietà, e ogni anno metteva da parte un mattone.
Però c'era un guaio, e cioè che il sor Zucchina non sapeva l'aritmetica, e così ogni tanto pregava Mastro Uvetta, il ciabattino, di fargli il conto dei mattoni.
— Vediamo un po' — diceva Mastro Uvetta, grattandosi la testa con la lesina, — sei per sette quarantadue… abbasso il nove… insomma, sono diciassette.
— E bastano per fare una casa?
— Io direi di no.
— E allora?
— E allora che vuoi da me? Se non bastano per fare una casa, farai una panchina.
— Ma io non ho bisogno di una panchina. Ci sono già quelle dei giardini pubblici, e quando sono occupate posso benissimo stare in piedi.
Mastro Uvetta si diede una grattatina alla testa con la lesina, prima dietro l'orecchio destro, poi dietro l'orecchio sinistro, infine rientrò nella sua bottega.
Il sor Zucchina decise di lavorare di più e di mangiare di meno, così che risparmiava tre mattoni all'anno, e qualche anno perfino cinque in una volta.
Diventò secco come uno zolfanello, ma la pila dei mattoni cresceva.
La gente diceva:
— Guardate Zucchina, sembra che i suoi mattoni se li tiri fuori dalla pancia. Ogni volta che il mucchio cresce di un mattone, Zucchina diminuisce di un chilo.
Quando Zucchina si sentì vecchio, andò a chiamare di nuovo Mastro Uvetta e gli disse così:
— Per favore, venite a farmi il conto dei mattoni.
Mastro Uvetta prese la lesina per grattarsi la testa, diede una occhiata al mucchio e sentenziò:
— Sei per sette quarantadue… abbasso il nove… insomma, sono centodiciotto.
— Basteranno per fare la casa?
— Io dico di no.
— E allora?
— Che vuoi da me? Farai un pollaio.
— Ma io non ho galline da metterci.
— Mettici un gatto: i gatti sono utili perché pigliano i topi.
— E' vero, ma io non ho un gatto, e a pensarci bene mi mancano anche i topi.
— Non so cosa dirti, — sbuffò Mastro Uvetta, grattandosi furiosamente la testa con la lesina, — centodiciotto sono centodiciotto, è giusto?
— Se lo dite voi che avete studiato l'aritmetica, sarà certamente così.
Il sor Zucchina sospirò, poi sospirò ancora una volta; infine, visto che a sospirare i mattoni non aumentavano di numero, decise di cominciare senz'altro la costruzione.
— Farò una casa piccola piccola, — pensava lavorando, — non ho mica bisogno di un palazzo, tanto sono piccolo anch'io. E se i mattoni sono pochi, adopererò qualche foglio di carta.
Il sor Zucchina lavorava adagio adagio, per paura di consumare troppo presto i mattoni. Li metteva uno sull'altro con delicatezza, come se fossero stati di vetro. Li conosceva tanto bene, i suoi mattoni!
— Ecco, — diceva prendendone uno e accarezzandolo affettuosamente, — questo è il mattone che risparmiai dieci anni fa per Natale. Lo andai a comperare al mercato con il soldi del cappone: il cappone lo mangerò quando sarà finita la casa.
A ogni mattone tirava un sospiro lungo lungo. Ma quando ebbe consumato tutti i mattoni, gli restavano ancora molti sospiri, e la casa era venuta uguale a una colombaia.
— Se io fossi un colombo, — pensava il povero Zucchina, — ci starei comodissimo.
Invece quando fece per entrare, battè un ginocchio sul tetto e minacciò di far crollare tutta la baracca.
— Invecchiando divento sbadato: devo fare più attenzione. Si inginocchiò davanti alla porta e così carponi e ginocchioni, strisciando e sospirando, entrò nella sua casina. Una volta dentro, ricominciarono i guai: se si alzava faceva crollare il tetto; lungo disteso non si poteva mettere, perché la casa era troppo corta; di traverso non si poteva sdraiare perché la casa era troppo stretta. E i piedi? Bisognava tirare dentro anche i piedi, altrimenti in caso di pioggia si sarebbero bagnati.
— A quel che vedo, — concluse Zucchina, — non mi resta che mettermi seduto.
E così fece. Si mise seduto e sospirò.
Se ne stava lì in mezzo alla casetta, sospirando con circospezione, e la sua faccia, nel finestrino, sembrava il ritratto della malinconia.
— Come vi sentite? — domandò Mastro Uvetta che era uscito sulla porta della bottega a curiosare.
— Bene, grazie, — rispose gentilmente Zucchina.
— Non vi va un po' stretta sulle spalle?
— No, ho preso bene le mie misure.
Mastro Uvetta si grattò la testa, secondo il solito, e borbottò qualcosa, ma non si potè capire cosa. Intanto, da tutte le parti la gente veniva a vedere la casetta di Zucchina. Venne anche una schiera di monelli e il più piccolo saltò sul tetto della Casina, e cominciò a ballare il girotondo:
Nella casa del sor Zucchina
la mano destra sta in cucina
la mano sinistra sta in cantina,
le gambe in camera da letto
e la testa esce dal tetto.
— Per carità, ragazzi, — si raccomandava Zucchina, — fate piano altrimenti mi crolla la casa. E' tanto delicata.
Per rabbonirli si cavò di tasca tre o quattro bei confetti rossi e verdi che ci stavano chissà da quanti anni e li offerse ai ragazzi: i quali si tuffarono strillando sulla mano e si azzuffarono per spartirsi il bottino.
Da quel giorno Zucchina, appena gli cresceva in tasca qualche spicciolo, comprava dei confetti e li metteva sul davanzale della finestra per i bambini, come si mettono le briciole per i passeri. Così se li fece amici.
Qualche volta li lasciava entrare a turno nella casetta e lui stava fuori a guardare che non facessero disastri.
* * *
Zucchina stava appunto raccontando a Cipollino tutte queste cose, quando una nuvola di polvere si levò in fondo al villaggio e subito si sentì uno sbattere precipitoso di porte e di finestre. Si vide la moglie di Mastro Uvetta abbassare con gran furia la saracinesca. La gente si tappava in casa come se stesse per scoppiare il ciclone. Perfino le galline, i gatti ed i cani si diedero a scappare di qua e di là in cerca di un rifugio.
Cipollino non fece in tempo a informarsi di quel che stava succedendo: la nuvola di polvere, con un frastuono orribile, aveva già attraversato il villaggio e si fermò proprio davanti alla casetta del sor Zucchina.
Tra la polvere comparve una carrozza tirata da quattro cavalli, che poi erano piuttosto quattro cetrioli, perché in quel paese, come avrete già capito, erano tutti imparentati con qualche verdura. Dalla carrozza balzò a terra un personaggio imponente, vestito di verde, con una faccia rossa e tondo come un pomodoro troppo maturo che pareva sul punto di scoppiare.
Quel personaggio era difatti il Cavalier Pomodoro, Gran Maggiordomo e Amministratore del Castello delle Contesse del Ciliegio. Cipollino pensò che doveva essere un poco di buono, se tutti scappavano a vederlo arrivare, e ad ogni buon conto si tirò in disparte.