Per intanto però il Cavalier Pomodoro non faceva nulla di terribile. Cosa faceva? Fissava il sor Zucchina, lo fissava e lo fissava, crollando la testa minacciosamente, senza dire una parola.
Il povero sor Zucchina avrebbe voluto sprofondare, lui e la sua casetta.
Il sudore gli scendeva a ruscelli dalla fronte e gli entrava in bocca, ma lui non aveva nemmeno il coraggio di alzare una mano per asciugarselo e lo mandava giù: era salato ed amaro.
Il sor Zucchina chiuse gli occhi e pensò: "Ecco, Pomodoro non c'è più. Io e la mia casetta siamo un marinaio e la sua barchetta in mezzo all'Oceano Pacifico, e l'acqua del mare è azzurra e calma e ci culla dolcemente. O come ci culla dolcemente, di qua e di là… di qua e di là…"
Macché Oceano Pacifico, macché Oceano Atlantico era il Cavalier Pomodoro che, afferrato il cucuzzolo del tetto, lo scrollava di qua e di là con tutta la sua forza, facendone cadere i tegoli.
Il sor Zucchina riaprì gli occhi, mentre Pomodoro lanciava un ruggito spaventoso, che fece chiudere le finestre del villaggio anche più strette di prima: e chi aveva dato un solo giro di chiave alla porta ne diede subito un secondo.
— Ladrone! — gridava Pomodoro. — Brigante! Tu hai costruito un palazzo sul terreno che appartiene alle Contesse del Ciliegio e pensi di passarci il resto dei tuoi giorni, oziando e ridendo alle spalle delle due povere vecchie! Ma te la farò vedere e signore, vedove e orfane di padre e di madre.
— Eccellenza! — pregava Zucchina. — Vi assicuro che il permesso di costruirmi qui la mia casetta mi è stato dato dal signor Conte Ciliegione!
Il Conte Ciliegione è morto da trentanni, pace al suo nocciolo. La terra è delle Contesse, e tu mi farai il piacere di andartene su due piedi. Del resto te lo dirà l'avvocato. Avvocato! Avvocato!
Il sor Pisello, che era l'avvocato del paese, doveva essere stato tutto il tempo dietro la porta, pronto alla chiamata, perché schizzò fuori proprio come un pisello dal suo baccello. Ogni volta che Pomodoro scendeva al villaggio chiamava sempre l'avvocato per farsi dar ragione.
— Eccomi, Eccellenza! Ai Vostri ordini, — biascicò Pisello, inchinandosi.
Ma era così piccolo che l'inchino non si vide: per paura di sembrare maleducato il sor Pisello fece addirittura una capriola, e andò a finire a gambe all'aria.
— Dite a quest'uomo che se ne deve andare subito, in nome della legge. E fate sapere a tutti quanti che le Contesse del Ciliegio hanno intenzione di mettere in questo canile un feroce mastino per tenere a bada i monelli, che da qualche tempo si dimostrano poco rispettosi.
— Ecco, io, veramente… — cominciò a farfugliare il sor Pisello, diventando sempre più verde per la paura.
— Che veramente e non veramente: siete avvocato sì o no?
— Sissignore, Eccellenza Illustrissima: mi sono laureato in diritto civile, penale e penoso all'Università di Salamanca.
— Basta così, allora. Se siete avvocato, ho ragione io. Potete andare.
— Sissignore, signor Cavaliere. — E il sor Pisello, senza farselo ripetere, scomparve più svelto della coda di un topo.
— Hai sentito che cos'ha detto l'avvocato? — domandò Pomodoro al sor Zucchina.
— L'avvocato non ha detto proprio niente.
— E osi anche rispondere, prepotentaccio?
— Eccellenza, io non ho aperto bocca, — balbettò Zucchina.
— Chi ha parlato, allora?
Pomodoro si guardò in giro minacciosamente.
— Birbante! Briccone! — disse ancora la voce.
— Chi ha parlato? Sarà stato certo quel poco di buono di Mastro Uvetta, — concluse Pomodoro, e direttosi verso la bottega del ciabattino picchiò con la sua mazza sulla saracinesca, dicendo:
— Lo so, lo so, Mastro Uvetta, che nella vostra bottega si fanno discorsi proibiti contro di me e contro le nobili Contesse del Ciliegio. Non avete alcun rispetto per quelle due poverine, vedove, orfane di padre e di madre e senza neanche uno zio. Ma verrà anche la vostra volta. E allora vedremo chi riderà.
— Verrà anche la tua volta, Pomodoro, e allora scoppierai, — disse di nuovo la voce.
E il padrone della voce, ossia Cipollino, si avvicinò con le mani in tasca al terribile Cavaliere, il quale non sospettò nemmeno per un minuto che fosse stato quel ragazzotto a dirgli il fatto suo.
— Di dove sbuchi tu? Perché non sei al lavoro?
— Io non lavoro, — disse Cipollino, — io studio.
— E che cosa studi? Dove sono i libri?
— Studio i furfanti, Eccellenza. Giusto adesso me n'è capitato uno sotto il naso, e non voglio perdere l'occasione di studiarlo per vedere com'è fatto.
— Un furfante? Qui tutti dal più al meno sono furfanti. Ma se ne hai trovato uno che non conosco, fammelo vedere.
— Certo, Eccellenza, — rispose Cipollino, strizzandogli l'occhio. Affondò ancora di più la mano nella tasca sinistra e ne trasse uno specchietto che adoperava per andare a caccia di allodole. Andò a mettersi davanti al muso di Pomodoro e gli ficcò lo specchio sotto il naso.
— Eccolo, Eccellenza: se lo guardi con comodo.
Pomodoro guardò con curiosità nello specchio. Chissà cosa credeva di vederci! Naturalmente, invece, ci vide la sua faccia, rossa di fuoco, con gli occhietti piccoli, con la bocca cattiva.
Finalmente capì che Cipollino lo stava prendendo per il naso: allora divenne addirittura furibondo. Lo afferrò per i capelli a due mani e cominciò a tirare.
— Ahi! Ahi! — strillava Cipollino, senza perdere l'allegria. — Troppa forza per un furfante solo: Vostra Eccellenza vale addirittura un battaglione di furfanti.
— Ti farò vedere io, — strillava Pomodoro. E tirò così forte che una ciocca di capelli gli restò in mano.
E capitò quello che doveva capitare, trattandosi dei capelli di Cipollino.
Che è, che non è, ad un tratto il feroce Cavaliere si sentì un tremendo pizzicore agli occhi e cominciò a piangere a ruscelli. Le lacrime gli scorrevano giù per le guance a sette a sette. La strada fu subito bagnata come se fosse passato lo spazzino con la pompa.
"Questa non mi era mai capitata!" — rifletteva stralunato Pomodoro.
Infatti, siccome non aveva cuore, non gli era mai capitato di piangere, e poi non aveva mai sbucciato le cipolle. Il fenomeno gli parve così strano che balzò sul calesse, frustò il cavallo e scappò via a gran velocità. Mentre fuggiva, però si voltò indietro a gridare:
— Zucchina, sei avvisato… E tu, piccolo malandrino, pagherai salate queste lagrime.
Cipollino si buttò per terra a ridere e il sor Zucchina si asciugava il sudore.
Una dopo l'altra le porte e le finestre si spalancavano, tranne quella del sor Pisello. Mastro Uvetta rialzò la saracinesca e venne fuori grattandosi la testa con entusiasmo:
— Per tutto lo spago dell'universo! — esclamava, — Ecco uno capace di far piangere il Cavalier Pomodoro. Di dove vieni, ragazzo?
E Cipollino dovette raccontare a tutti la sua storia, che voi conoscete già.
Capitolo III
Un Millepiedi pensa: che guaio portare i figli dal calzolaio!
Cipollino cominciò a lavorare nella bottega di Mastro Uvetta, e faceva molti progressi nell'arte del ciabattino: dava la pece allo spago, batteva le suole, piantava i chiodi negli scarponi, prendeva le misure ai clienti.
Mastro Uvetta era contento e gli affari andavano bene. Molta gente veniva nella sua bottega solo per dare un'occhiata a quello straordinario ragazzetto che aveva fatto piangere il Cavalier Pomodoro.
Così Cipollino fece molte nuove conoscenze.
Venne prima di tutti il professor Pero Pera, maestro di musica, con il violino sotto il braccio. Lo seguiva un codazzo di mosconi e di vespe, perché il violino di Pero Pera era una mezza pera profumata e burrosa, e si sa che i mosconi perdono facilmente la testa per le pere.