Cominciarono tutti a parlare del tempo.
— Che brutto tempo, — diceva Donna Prima, guardando dalla finestra nel giardino, in cui il sole faceva brillare come gemme i fiori bagnati dal temporale di poco prima.
— Che acquazzone orribile! Guardate come viene per traverso! — disse Donna Seconda, guardando un raggio di sole che scendeva da una nube a specchiarsi nel laghetto dei pesci rossi.
— Sentite che tuoni! — disse il Duchino Mandarino, tappandosi le orecchie e fingendo di essere spaventatissimo.
— Fragoletta, — gridò Donna Prima, con una trovata geniale, — corri subito a chiudere tutte le imposte!
Fragoletta si affrettò a chiudere le imposte e in breve in tutte le camere regnò il buio assoluto.
Nel salone accesero la luce, e Donna Seconda sospirò:
— Che notte terribile!
— Io ho paura, — disse il Principe Limone in un momento di sincerità.
Tutti quanti, per fargli coraggio, si misero a tremare come canne.
Pomodoro ad un certo punto si avvicinò ad una finestra, scostò l'imposta e arrischiò timidamente:
— Mi pare che il temporale stia cessando.
— No, no, non cessa! — strillò il Principe, gettando un'occhiata di traverso al raggio di sole che era entrato gloriosamente nella stanza.
Pomodoro si affrettò a chiudere, ammettendo che, difatti, continuava a piovere a dirotto.
— Altezza, — sospirò il Barone che non vedeva l'ora di mettersi a tavola, — non vorreste gradire un boccone?
No, il Principe non voleva gradire.
— Con questo tempo, — disse, — non ho proprio fame.
Il Barone non capiva che rapporto ci fosse tra il tempo e la cena, ma siccome tutti avevano cominciato a dire che il temporale gli aveva fatto perdere l'appetito, anche lui dichiarò:
— Io dicevo per dire, Altezza. A me i lampi mi danno un tale mal di stomaco che non potrei mandar giù nemmeno un brodino.
In verità, se avesse potuto, avrebbe sgranocchiato volentieri un paio di sedie, ma non era il caso di contraddire il Governatore.
Il quale, finalmente, stanco per le emozioni della giornata, si addormentò sulla sedia. Gli gettarono addosso una coperta e andarono a cena.
Pomodoro mangiò pochissimo, poi si alzò in fretta e disse che andava a coricarsi. Invece scivolò in giardino e si diresse verso il villaggio.
— Voglio un po' dare un'occhiata di persona. La paura del Principe è molto sospetta. Non mi meraviglierei che fosse scoppiata la Rivoluzione.
Quella parola gli fece venire i brividi alla schiena. Si proibì di pensarla ancora, ma più se lo proibiva e più la pensava. La paroletta maledetta gli ballava davanti agli occhi in tutte le lettere: R come Roma, I come Imola, V come Venezia eccetera eccetera.
A un tratto gli parve che qualcuno lo seguisse. Si appiattò dietro una siepe ed attese. Dopo qualche minuto gli passò davanti il sor Pisello, che si muoveva con prudenza come se camminasse sulle uova. L'avvocato era molto sospettoso: avendo visto il Cavaliere che sgattaiolava nel parco, si era messo sulle sue tracce.
Pomodoro stava per uscire dal suo nascondiglio quando apparve un'altra ombra.
Si rincantucciò dietro la siepe per lasciarla passare. Stavolta era don Prezzemolo, che aveva deciso di spiare l'avvocato. Col suo nasone aveva fiutato che stava succedendo qualcosa di grosso, e non voleva essere lasciato all'oscuro.
Il Duchino Mandarino, invece, aveva fiutato odore di Prezzemolo, perciò eccolo, poco dopo, sulle tracce dell'istitutore.
— Non mi meraviglierei che comparisse anche il Barone, — mormorò Pomodoro, trattenendo il fiato per non farsi scoprire.
Difatti ecco anche il Barone. Avendo visto uscire il Duchino, aveva pensato che si recasse a qualche cenetta di nascosto e aveva deciso di non perdere l'occasione per una bella scorpacciata. Fagiolone ansava, tirando la carriola, ma al buio non poteva vedere né i sassi né le buche, così il Barone doveva sopportare certi scossoni che avrebbero fatto arrabbiare un ippopotamo.
Dopo il Barone non passò più nessuno. Pomodoro uscì dal suo nascondiglio e si dispose a seguirlo.
Così passarono le ore a pedinarsi: il sor Pisello cercava invano di raggiungere Pomodoro, che invece era diventato l'ultimo della fila; don Prezzemolo pedinava il sor Pisello; il Duchino inseguiva don Prezzemolo; il Barone non perdeva di vista il Duchino e Pomodoro camminava sulle tracce del Barone. Ciascuno studiava attentamente i movimenti di quello che gli stava davanti, senza sospettare di essere a sua volta spiato. Qualche volta, nel pedinarsi, invertivano l'ordine degli addendi, ossia il sor Pisello, che era il primo, diventava il secondo perché don Prezzemolo, prendendo per un vicolo, gli aveva tagliato la strada. Allora non avevano pace fin che non avevano ristabilito l'ordine di partenza. Impiegando la notte intera a spiarsi l'un l'altro, non ebbero tempo di spiare altre cose, e all'alba ne sapevano come prima. Per giunta erano stanchi morti.
Si decisero a tornare al Castello. Incontrandosi nei viali del parco, si salutavano e si informavano della propria salute, raccontandosi un sacco di bugie.
— Dove siete stato? — domandava Pomodoro al sor Pisello.
— Sono stato a far da testimone a mio fratello che si è sposato.
— Strano, di solito i matrimoni non si celebrano di notte.
— Mio fratello è piuttosto stravagante, — rispose l'avvocato. Pomodoro sogghignò: dovete sapere infatti che il sor Pisello non aveva fratelli.
Don Prezzemolo disse che era andato alla posta, il Duchino e il Barone dissero tutti e due che erano andati a pescare e si meravigliarono molto perché non si erano incontrati.
Erano così stanchi che camminavano con gli occhi chiusi, così uno solo di loro vide che sulla torre del Castello sventolava la bandiera della Repubblica.
L'avevano piantata Cipollino e Ciliegino quella stessa notte, e adesso stavano lassù in attesa degli eventi.
Capitolo XXX
Gran finale: tutti al Castello con Prezzemolo bidello
Quell'uno solo che aveva visto la bandiera della Repubblica piantata sulla torre, pensò che si trattasse di uno scherzo di Ciliegino, e decise di fare subito due cose: primo, strappare quell'orribile straccio; secondo, dare un paio di sculacciate al Visconte, perché questa volta «aveva passato il segno».
Eccolo dunque, quell'uno, che sale i gradini a quattro a quattro, e ad ogni passo si gonfia dalla rabbia. Si gonfia sempre più, ho perfino paura che quando sarà arrivato in cima non riuscirà a passare per la porticina che da sul terrazzo della torre. Sento i suoi passi terribili che rimbombano nel silenzio come martellate. Tra poco sarà in cima. Passerà, non passerà? Quanto scommettiamo?
Ecco, è arrivato. Avevate scommesso?
Bene, hanno vinto quelli che hanno scommesso che non ci passava. Per la rabbia, difatti, Pomodoro — era lui che saliva le scale, non l'avevate ancora riconosciuto? — si è gonfiato tanto che la porta è troppo stretta.
E adesso lui e lì, a due passi dalla terribile bandiera che sventola al sole, e non può strapparla, non può nemmeno sfiorarla con le dita. E accanto all'asta della bandiera, accanto al Visconte che si pulisce nervosamente gli occhiali, chi vede se non Cipollino in persona, l'odiato nemico che lo ha fatto piangere per la prima volta?
— Buongiorno, signor Cavaliere, — disse Cipollino inchinandosi.
Attento, Cipollino! Peccato, quel bell'inchino ha portato la sua testa alla distanza giusta: Pomodoro non ha che da allungare le mani e il nostro eroe è afferrato per i capelli, come il giorno del suo arrivo.
Pomodoro è talmente arrabbiato che non si ricorda più dell'effetto che gli fece quella tiratina di capelli e tira di nuovo, con tanta forza, che va a finire allo stesso modo: una ciocca gli resta in mano e subito Pomodoro sente quel terribile pizzicorino agli occhi e le lacrime gli cadono dalle palpebre, grosse come noci e sul pavimento fanno tac, tac…