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I rami continuavano a ondeggiare piegandosi finché, con uno schianto terribile, un ammasso di rami e foglie si staccò precipitando addosso a Zhde Patasz e a Uder Che. Si udì un altro schianto, e il tronco si spaccò e ricadde. La sacca esplose, e il Thord ne emerse, camminando carponi sugli ammassi fibrosi che aveva al posto delle mani. Con la testa eretta e uno spaventevole sorriso, gridò con voce roca e gorgogliante: — Non sono un albero! Sono Chayen di Tente! — Dalla bocca gli uscivano rivoli di liquido giallastro. Tossì e, fissando Farr, riuscì a balbettare: — Vattene via! Vattene via! Lascia questi maledetti coltivatori. Vattene, fa’ quel che devi…

Omon Bozhd stava dandosi da fare per soccorrere Zhde Patasz prigioniero sotto l’ammasso di rami e foglie. Ricadendo prono, il Thord sussurrò: — Ora muoio… ma non come un albero di Iszm. Muoio come un Thord… Chayen di Tente…

Farr si volse, per aiutare Omon Bozhd e Zhde Patasz, che era riuscito a districarsi, a estrarre Uder Che di sotto alle foglie. Ma era ormai inutile. Un ramo aveva spezzato il collo dell’architetto. Zhde Patasz si lasciò sfuggire un gemito di disperazione. — Quell’essere mi ha ferito in morte quanto mi aveva turbato in vita. Ha ucciso il migliore dei miei architetti. — Poi si voltò, e uscì dalla cupola, seguito dagli altri due.

Tornarono a Tjiere immersi in un cupo silenzio. Quando il calesse entrò nel viale principale, Farr disse: — Zhde Patasz, gli avvenimenti di questo pomeriggio vi hanno profondamente turbato; credo sia meglio che non approfitti ancora della vostra ospitalità.

Zhde Patasz rispose brusco: — Farr Sainh può fare ciò che preferisce.

— Porterò sempre con me il ricordo della mia permanenza sull’atollo di Tjiere — disse con ipocrita cortesia Farr. — Voi mi avete permesso di vedere con i miei occhi quali siano i problemi dei piantatori di Iszm, e ve ne sono profondamente grato.

Con un inchino, Zhde Patasz replicò: — Farr Sainh può star certo che, da parte nostra, lo ricorderemo sempre.

La piattaforma si fermò nella piazza su cui crescevano gli alberi-albergo, e Farr scese a terra, seguito, dopo una breve esitazione, da Omon Bozhd. Vi fu uno scambio di cortesie formali, e infine il calesse si allontanò.

— Che cosa farete adesso? — domandò Omon Bozhd a Farr.

— Prenderò una camera all’albergo.

Omon Bozhd assentì, come se Farr avesse espresso una profonda verità. — E poi?

— Ho ancora la barca che ho noleggiato — rispose Farr, pensando che ormai aveva ben poca voglia di visitare le piantagioni degli altri atolli. — Credo che tornerò a Jhespiano, e poi…

— E poi?

— Non lo so.

— Comunque, vi auguro buon viaggio.

— Grazie.

Farr attraversò la piazza, entrò nell’albergo più grande e gli venne assegnato un appartamento di baccelli simile a quello che aveva occupato nella casa di Zhde Patasz.

Quando scese nel ristorante per la cena, notò che erano riapparsi gli Szecr, e ne fu molto contrariato. Dopo il pasto, una tipica cena iszica a base di vegetali e frutti di mare, Farr si diresse verso il porto per ordinare che la Lhaiz si tenesse pronta. Il capitano non era a bordo, e il nostromo protestò alle sue richieste, dicendo che non avrebbero potuto salpare prima dell’alba, e Farr dovette arrendersi. Per passare la serata, passeggiò lungo la spiaggia. La risacca, il venticello tiepido, la sabbia, erano uguali a quelli terrestri, ma di diverso c’erano le sagome degli alberi che costeggiavano il litorale e i due Szecr che lo seguivano passo passo. Farr si sentì prendere dalla nostalgia. Era stato via anche troppo; adesso doveva tornare sulla Terra.

6

Farr salì a bordo della Lhaiz prima che l’XI dell’Auriga fosse completamente spuntato all’orizzonte e la vista della distesa del Pheadh gli diede un senso di sollievo. L’equipaggio era al lavoro e tutta la Lhaiz era pervasa da quella particolare atmosfera carica di elettricità che si nota sulle navi in procinto di salpare. Farr gettò il suo scarso bagaglio in cabina, andò alla ricerca del capitano e gli disse che poteva partire. Il capitano rispose con un inchino, poi impartì diversi ordini all’equipaggio. Passò mezz’ora, ma la Lhaiz era sempre all’ancora. Farr chiese al capitano il motivo del ritardo.

Indicando un uomo che stava lavorando intorno alla chiglia, il capitano rispose: — Stanno riparando una falla, Farr Sainh. Fra poco potremo salpare.

Farr tornò a sedersi a poppa. Passò un altro quarto d’ora, e già cominciava a interessarsi dell’attività del porto, del passaggio di Iszici a strisce di diversi colori, quando arrivarono gli Szecr, che salirono a bordo. Parlarono con il capitano, che impartì subito ordini all’equipaggio.

Le vele si gonfiarono di vento, vennero ritirati gli ormeggi, il sartiame scricchiolò… Farr si alzò furibondo. Voleva ordinare agli Szecr di tornarsene a terra, ma non lo fece, perché sapeva che sarebbe stato inutile. Schiumando d’ira trattenuta, tornò a sedersi, mentre la Lhaiz prendeva il mare. Si lasciarono alle spalle l’atollo di Tjiere, che ben presto divenne una linea nebbiosa sull’orizzonte, e poi scomparve. Il battello faceva rotta verso occidente, prendendo il vento di prua. Farr non capiva, non aveva impartito ordini particolari. Perché andavano da quella parte? Chiamò il capitano, e gli disse: — Non vi ho dato ordini: perché andate a ovest?

Il capitano sollevò un settore degli occhi. — La nostra destinazione è Jhespiano. Non e lì che volevate andare, Farr Sainh?

— No — ribatté Farr per puro spirito di contrarietà. — Dobbiamo far rotta a sud, verso Vhejanh.

— Ma Farr Sainh, se non andiamo subito a Jhespiano non arriverete in tempo per la partenza dell’astronave.

Farr era talmente sbalordito che quasi non riusciva a parlare. — Che cosa ne sapete voi? Ho forse espresso il desiderio di partire con l’astronave?

— No, Farr Sainh, no che io sappia.

— E allora vi prego di non cercar più di indovinare le mie intenzioni. Faremo vela per Vhejanh.

— Lo so che bisogna prendere in seria considerazione i vostri ordini — rispose il capitano meditabondo — ma non posso nemmeno trascurare gli ordini degli Szecr. Essi vogliono che la Lhaiz si diriga verso Jhespiano.

— In tal caso, gli Szecr dovranno pagare il nolo di questa imbarcazione. Io non vi darò un soldo.

Il capitano si allontanò a passo lento, per andare a consultarsi con gli Szecr. Ne seguì una breve discussione, durante la quale sia il capitano che gli Szecr si voltarono più d’una volta a guardare Farr, che continuava a starsene seduto a poppa. Infine la Lhaiz virò bruscamente verso sud, e i due Szecr si allontanarono furiosi.

Man mano che procedeva il viaggio, Farr si sentiva sempre più inquieto. L’equipaggio faceva il suo dovere, ma gli Szecr si comportavano addirittura con insolenza, arrivando a perquisire la sua cabina senza nemmeno chiedergliene il permesso. Farr si sentiva più un carcerato che un turista, e aveva l’impressione che lo provocassero deliberatamente, al solo scopo di rendergli insopportabile la permanenza sul pianeta. “In tal caso non faranno molta fatica” osservò tra sé Farr. “Il giorno in cui lascerò Iszm sarà il più felice della mia vita.”

L’atollo di Vhejanh spuntò all’orizzonte: quel gruppo di isole avrebbe potuto essere il gemello di Tjiere. Farr scese, anche se non ne aveva voglia, e non trovò niente di più interessante da fare che sedersi sul terrazzo dell’albergo con un bicchierino di narciz una bevanda aspra, leggermente salata, che si ricavava dalle alghe e che gli Iszici di Pheadh consumavano in gran quantità. Mentre stava per andarsene notò una bacheca in cui era esposta la fotografia di un’astronave, e un orario degli arrivi e delle partenze. Vide così che dopo tre giorni sarebbe partita da Jhespiano la motonave Andrei Simic. Poi, per altri quattro mesi, non ci sarebbero state altre partenze. Farr studiò l’orario con grande interesse, tornò poi sulla Lhaiz, pagò il noleggio, e ripartì in aereo per Jhespiano.