— Perché? — domandò Farr. — Perché è successo tutto ciò?
Bengston non rispose.
— Ho il diritto di saperlo — insisté Farr. — Perché?
Silenzio.
— Perché? — tornò a ripetere Farr, con voce improvvisamente umile. — Ditemelo, per favore!
Paul Bengston alzò le spalle, scoppiando in una stridula risata.
— Si tratta di qualcosa che dovrei sapere? — tornò alla carica Farr. — Qualcosa che ho visto o di cui sono in possesso?
Pareva che Bengston fosse vicino a un attacco isterico.
— Non mi piace come siete pettinato — fu tutto quel che disse, e tornò a ridere come un matto.
— Non sono riuscito a cavargli altro — dichiarò cupo l’ispettore.
— Ma perché si comporta così? — cercò di sapere Farr. — Che motivi lo spingono? E perché gli Anderview volevano uccidermi?
— Se lo scopriremo, ve lo farò sapere — promise l’ispettore. — Intanto… come posso tenermi in contatto con voi?
Farr ci pensò. Doveva fare qualche cosa… Be’, se ne sarebbe ricordato, ma intanto… — Scendo all’Hotel Imperador di Los Angeles.
— Pazzo! — mormorò tra sé Bengston.
Farr fece per avventarglisi contro, ma Kirdy lo trattenne. — Calmatevi, signor Farr.
Mentre Farr si allontanava, scorse il capitano, che si affrettò a dire: — Niente, niente, signor Farr, non state a scusarvi!
10
Ritornato nel salone, Farr vide che gli altri passeggeri erano sbarcati, recandosi nell’ufficio immigrazione. Si affrettò a seguirli, agitato, come in preda a un accesso di claustrofobia, perché gli sembrava che l’Andrei Simic, il magnifico uccello spaziale, fosse diventato una tomba: non ne poteva più di sbarcare, di toccare il suolo terrestre.
Era quasi mattina. Il vento del Mojave gli soffiava in viso, portando con sé aromi e sabbia del deserto, le stelle brillavano pallide a oriente. Prima di scendere lo scalandrone, Farr si fermò alzando istintivamente gli occhi per cercare la costellazione dell’Auriga. Eccola: Capella, e poi, appena percettibile nel suo tremolio, l’XI dell’Auriga, intorno a cui ruotava Iszm. Farr scese i gradini e posò finalmente il piede sulla Terra. Era tornato. Il contatto gli fece uno strano effetto: gli parve che nel suo cervello si fosse aperto uno spiraglio… Con una sensazione di sollievo, aveva scoperto quale era la prima e più logica cosa da farsi: andare da K. Penche.
Rimandò la visita all’indomani, riservando la prima giornata al riposo. Un bel bagno, un buon bicchiere di whisky, e poi a letto.
Stava per avviarsi quando gli si avvicinò Omon Bozhd. — È stato un piacere avervi conosciuto, Farr Sainh. Permettetemi un consiglio: state molto attento. Sono convinto che siate ancora in grave pericolo — e facendo un inchino se ne andò, lasciando Farr a seguirlo, stupito, con lo sguardo. Aveva tutte le intenzioni di far tesoro di quell’avvertimento.
Sbrigate in poco tempo le pratiche all’ufficio immigrazione, fece portare il bagaglio all’Imperador. Trascurando gli elitassì, si lasciò calare nel condotto della sotterranea. Il disco si fermò sotto i suoi piedi (non mancava mai di provare un brivido, lasciandosi calare nel pozzo: e se il disco non fosse arrivato?). Il disco si arrestò, Farr pagò il biglietto, chiamò alla banchina una vetturetta monoposto, vi salì, manovrò i comandi in modo da indicare la destinazione, poi si rilassò con un sospiro sul sedile. Non riusciva a dominare il turbine dei propri pensieri. Una visione dopo l’altra gli si accavallavano nella testa: lo spazio sterminato, Jhespiano, Iszm, le case a molti baccelli. Gli parve di essere ancora a bordo della Lhaiz diretto all’atollo di Tjiere, riprovò il terrore dell’incursione nei campi di Zhde Patasz, della caduta nel tronco cavo, della prigionia insieme al Thord e, più tardi, rivisse la terribile esperienza passata sull’isolotto dove Zhde Patasz faceva i suoi esperimenti… Le visioni correvano veloci; erano solo ricordi, e si allontanarono, si allontanarono ancor più degli anni-luce che lo separavano da Iszm.
Il ronzio della vettura gli conciliava il sonno appesantendogli le palpebre, ma si sforzò di rimanere sveglio. Tutta la faccenda sembrava un incubo fantastico. E invece era reale.
Farr si costrinse a dare un corso meno confuso ai propri pensieri, ma la sua mente si rifiutava di ragionare, di far progetti. Qui, nella sotterranea sul suo pianeta natale, l’idea del pericolo, dell’assassinio, gli pareva assurda e impossibile…
Un solo uomo sulla Terra poteva aiutarlo: K. Penche, rappresentante terrestre delle case di Iszm, l’uomo al quale Omon Bozhd era venuto a portare cattive notizie.
La vettura vibrò a una curva, ne superò un’altra e finalmente giunse al termine della corsa. La porta si aprì e un fattorino in divisa gli venne incontro sulla banchina. Premette i pulsanti sullo stereoschermo della cabina e un ascensore portò Farr al livello del suolo, poi, centottanta metri più in alto, fino al livello della sua stanza. Gliene avevano assegnata una ampia, arredata in gradevoli toni di verde oliva, giallo paglierino, rossiccio e bianco. Una parete, tutta di vetro, guardava su Santa Monica, Beverly Hills e l’oceano. Farr sospirò di sollievo. Le case isziche erano bellissime sotto molti aspetti, ma non potevano certo reggere al confronto con l’Hotel Imperador.
Farr fece il bagno, sguazzando nella vasca colma d’acqua calda profumata di limoncella, mentre dalle pareti della vasca uscivano sottili getti alterni d’acqua fresca che servivano a massaggiargli le gambe, la schiena, il petto… Mancò poco che si addormentasse. Poi il fondo della vasca si sollevò pian piano raddrizzandosi, deponendolo in piedi sul pavimento. Subito, soffi di aria calda lo asciugarono, mentre una lampada solare gli conferiva una rapida abbronzatura.
Uscito dal bagno, trovò pronto in camera un bicchiere di whisky e soda, che sorseggiò stando davanti alla finestra, stanco per tutte le fatiche e le emozioni, ma profondamente soddisfatto.
Sorse il sole, e la sua luce ambrata si riversò come una marea sui recessi della metropoli. Là, in uno dei quartieri di lusso che un tempo si chiamava Signal Hill, abitava K. Penche. Farr si sentì dubbioso al pensiero di essere convinto che Penche rappresentasse la soluzione a ogni suo problema. Be’, quando fosse andato da lui avrebbe scoperto se era vero o no.
Polarizzò la finestra e la camera diventò buia. Mise la sveglia su mezzogiorno, si sdraiò sul letto, e cadde subito in un sonno profondo.
La finestra si depolarizzò e la luce del giorno entrò a inondare la stanza, svegliando Farr che, postosi a sedere sul letto, prese dal tavolino il menù. Ordinò caffè, pompelmo, prosciutto e uova, poi scese dal letto e andò alla finestra. La più grande città del mondo si stendeva sotto di lui a perdita d’occhio, coi grattacieli che s’intravedevano nella nebbiolina calda, tutta fremente di commerci e di vita.
Dalla parete uscì un tavolino con la sua colazione e Farr si mise a mangiare, guardando le ultime notizie sullo stereoschermo. Per un momento dimenticò i suoi guai, ma poi la voce disse: “… e ora qualche breve notizia dallo spazio. Abbiamo appena appreso che a bordo della Andrei Simic, due passeggeri, in apparenza missionari di ritorno da un viaggio nel gruppo Mottram…”. Farr fissava lo schermo, dimentico del cibo, e la sua allegria stava ormai svanendo.
La voce fece un resoconto dell’accaduto, e sullo schermo comparve un’immagine dell’Andrei Simic: prima l’esterno, poi una sezione dell’interno con una freccia che indicava la cabina della morte. Com’era gradevole e noncurante la voce dell’annunciatore! Come faceva sembrare remota e trascurabile la faccenda!
“… le due vittime e l’assassino sono stati tutti identificati quali membri del sindacato criminale Bruttotempo. Pare che si fossero recati su Iszm, terzo pianeta dell’XI dell’Auriga, con l’intento di contrabbandare una casa femmina.”