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La voce continuò a parlare, mentre apparivano sullo schermo immagini degli Anderview e di Paul Bengston.

Farr spense l’apparecchio e fece rientrare il tavolino nella parete. Tornò poi alla finestra, con gli occhi fissi sulla città. Doveva vedere Penche al più presto. Era urgente.

Dall’armadio Taglia 2 prese della biancheria, un abito azzurro leggero e un paio di sandali. Vestendosi, faceva progetti per la giornata. Per prima cosa, Penche… Farr si accigliò, tralasciando di affibbiare un sandalo. Che cosa doveva dire a Penche? A pensarci bene, perché il magnate avrebbe dovuto interessarsi ai suoi guai? Che cosa poteva fare per lui? Il suo monopolio dipendeva dagli Iszici, ed era poco probabile che volesse correre il rischio di inimicarseli.

Farr trasse un lungo sospiro, cercando di bandire quei pensieri molesti. Per quanto la cosa sembrasse illogica, doveva andare da quell’uomo. Ne era sicuro, lo sentiva anche senza sapere perché.

Terminò di vestirsi, e chiamò l’ufficio di K. Penche. Sullo schermo comparve il simbolo di Penche, lo schema di una casa iszica sormontato dalla scritta: K. PENCHE-CASE. Farr non aveva ancora premuto il tasto che permetteva alla propria immagine di apparire sullo schermo. Glielo aveva vietato un timore istintivo.

Una voce femminile disse: — Impresa K. Penche.

— Parla… — Farr s’interruppe e non disse il suo nome. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche.

— Chi parla?

— Si tratta di affari personali.

— Di quali affari, prego?

— Personali.

— Vi metto in comunicazione con la segretaria del signor Penche.

Sullo schermo comparve l’immagine della segretaria: una giovane dal fascino languido, a cui Farr ripeté la richiesta. — Inviate la vostra immagine, prego — rispose la segretaria.

— No — fece Farr. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche. Parlerò direttamente a lui.

— Temo che sia impossibile — asserì la ragazza. — È contrario alla nostra procedura d’ufficio.

— Dite al signor Penche che sono appena arrivato da Iszm con l’Andrei Simic.

La segretaria si volse a parlare in un altro microfono, e poco dopo il suo viso scomparve dallo schermo, per lasciare il posto alle fattezze dure e pesanti di K. Penche. Gli occhi brillavano incavati nelle orbite profonde, dure linee di muscoli serravano le labbra, le sopracciglia si curvavano sardoniche. Non si capiva se fosse seccato o no.

— Chi parla? — domandò.

Le parole si affollavano alla mente di Farr come bolle risalenti alla superficie dell’acqua. Erano parole che non avrebbe mai pensato di pronunciare. Riuscì a dire: — Vengo da Iszm; ce l’ho! — Farr ascoltò sbalordito la propria voce. Le parole tornarono a ripetersi: — Vengo da Iszm… — poi chiuse le labbra, e non riuscì a finire la frase.

— Ma chi è? Chi parla?

Farr allungò a fatica una mano e spense lo schermo. Si lasciò andare sulla poltrona. Che cosa gli stava succedendo? Non aveva niente per Penche, lui. Niente alludeva a una casa femmina, naturalmente. Farr poteva anche essere ingenuo, ma non fino a quel punto. Non aveva casa, né semente, né germogli, né arboscelli.

Perché desiderava tanto vedere K. Penche? Il buonsenso e la logica riuscirono ad avere il sopravvento: Penche non poteva far nulla per lui. Ma un’altra parte del suo cervello asseriva: “Penche sa di cosa si tratta, può darti dei buoni consigli…”. Be’, sì, dovette convenire Farr: quella voce forse aveva ragione.

Farr si rilassò. Il motivo era plausibile, ma d’altra parte Penche era un uomo d’affari che dipendeva dagli Iszici. Se lui doveva rivolgersi a qualcuno, doveva andare alla Squadra Speciale, non da Penche.

Rimase seduto a lungo, passandosi la mano sul mento. Be’, dopotutto che male c’era ad andare da Penche? Non era meglio togliersi quel peso dallo stomaco? Se avesse avuto un motivo valido… ma non riusciva a trovarne. Finalmente decise: non sarebbe andato da Penche.

Uscì dalla stanza, scese nell’atrio principale dell’Imperador e andò al banco per farsi cambiare un assegno. Mentre l’assegno veniva mandato in visione alla banca, era questione di pochi secondi, Farr tamburellava impaziente con le dita sul banco. Un uomo dalla faccia di rana, vicino a lui, stava discutendo con l’impiegato. Voleva affidargli un messaggio per un ospite, ma l’impiegato non voleva accettarlo. L’uomo incominciò a dar segni d’insofferenza, ma l’impiegato, chiuso nel suo gabbiotto di vetro, continuava a scrollare il capo imperturbabile, sereno per la forza che gli veniva dalle norme e dai regolamenti; pareva quasi che si divertisse.

— Se non sapete come si chiama, come potete esser sicuro che sia all’Imperador?

— So che è qui — insisté l’uomo con la faccia di rana. — Ed è molto importante che riceva il mio messaggio.

— Mi pare piuttosto strano — obiettò l’impiegato. — Non sapete che aspetto abbia, ignorate il suo nome… può anche darsi che il messaggio venga consegnato a qualcun altro.

— Questo è affar mio.

L’impiegato tornò a scrollare la testa sorridendo. — A quanto pare, sapete soltanto che è arrivato qui stamattina alle cinque. Ci sono parecchi ospiti arrivati a quell’ora.

Farr, intento a contare il denaro, ascoltava distrattamente il dialogo. Indugiò, riponendo i biglietti di banca nel portafogli, mentre lo sconosciuto asseriva: — So anche che quest’uomo è arrivato dallo spazio. Era appena sbarcato dall’Andrei Simic. Adesso sapete di chi parlo?

Farr si allontanò senza dare nell’occhio. Aveva capito di che si trattava. Penche aveva aspettato la sua telefonata, importantissima per lui. Poi aveva rintracciato da dove era stata fatta e aveva spedito un uomo all’Imperador. Appartatosi in un angolo dell’atrio, osservò l’uomo che si allontanava scornato e rabbioso dal banco. Farr era sicuro che non avrebbe desistito; si sarebbe rivolto a qualche cameriere o fattorino e, grazie a una buona mancia, sarebbe finalmente riuscito a ottenere l’informazione.

Farr si avviò verso la porta, voltandosi a guardare indietro. Una donnetta di mezza età, scialba e di aspetto comune, gli stava venendo incontro, e quando lui la guardò in faccia, distolse lo sguardo, restando per un momento incerta. Se Farr non avesse avuto motivo di sospettare, non avrebbe notato nulla. La donna lo sorpassò rapida, salì su una passatoia mobile, e, attraverso il giardino delle orchidee dell’Imperador, uscì nel Sunset Boulevard.

Farr la seguì fra la folla finché non la perse di vista. Giunto a un posteggio di elitassì saltò sul primo e diede una destinazione a caso al conducente: Laguna Beach.

L’apparecchio si sollevò puntando verso sud.

Guardando dal finestrino posteriore, Farr vide che un altro elitassì li seguiva a un centinaio di metri.

— Voltate verso Riverside — disse al conducente.

L’elitassì inseguitore eseguì la stessa manovra.

— Scendo qui — disse allora Farr.

— A South Gate? — domandò il conducente stupito.

— Sì, South Gate. — Non era troppo lontano dall’ufficio e dalla residenza di Penche a Signal Hill, il che parve a Farr una singolare coincidenza.

Dopo esser saltato a terra, osservò l’altro elitassì che si accingeva ad atterrare. Non era molto preoccupato: sfuggire a un inseguitore era semplicissimo, addirittura puerile.

Farr seguì la freccia che indicava il più vicino condotto della sotterranea e vi si lasciò cadere. Il disco fu pronto ad accoglierlo e lo depositò vicino alla banchina. Farr chiamò una vettura e salì svelto a bordo. La sotterranea pareva creata apposta per seminare i pedinatori. Segnò sul quadrante la destinazione, poi cercò di rilassarsi sul sedile.