La vetturetta accelerò ronzando, rallentò e si fermò. Farr balzò a terra e risalì alla superficie. Rimase paralizzato dallo stupore. Che cosa ci faceva a Signal Hill? Una volta, Signal Hill era punteggiato di torri di trivellazione, adesso era un immenso giardino esotico: alberi, cespugli, siepi, fra cui emergevano superbe ville e palazzi. C’erano laghetti, cascate, e accuratissime aiuole fiorite di ibisco, di narcisi, di gardenie azzurre. I giardini pensili di Babilonia erano niente al confronto. Bel Air sfigurava, al paragone, e Topanga poteva andar bene solo per gli arricchiti.
K. Penche possedeva venti acri di terreno proprio sulla sommità di Signal Hill. Aveva disboscato il terreno, infischiandosene delle leggi e delle proteste. Ora Signal Hill era incoronata di alberi-case di Iszm: sedici varietà dei quattro tipi fondamentali che gli Iszici permettevano di esportare.
Farr si avviò lentamente verso il viale coperto che una volta si chiamava Atlantic Avenue. Davvero interessante che le coincidenze del caso l’avessero condotto proprio lì. Be’, già che c’era, poteva anche andare a far quattro chiacchiere con K. Penche…
No! protestò subito, con fermezza. Ormai aveva deciso, e non voleva permettere che un impulso irrazionale gli facesse cambiare idea. Era tuttavia strano che, in una città immensa come la Grande Los Angeles, fosse capitato proprio a due passi dall’abitazione di K. Penche! Doveva esser stato il suo subcosciente a decidere per lui.
Si guardò alle spalle e, sebbene fosse certo che nessuno poteva averlo seguito, fissò a lungo la folla dei passanti di ogni età, tipo e colore. Per esclusione, finì per prendere in considerazione un ometto vestito di grigio che gli sembrava stonato, in mezzo all’altra gente. Farr girò sui tacchi, s’infilò in un caffè ombreggiato da un ciuffo di palmizi, e uscì dalla parte opposta, nascondendosi dietro un cespuglio.
Dopo un minuto, vide l’uomo in grigio uscire dal caffè e dirigersi dalla sua parte. Farr lo affrontò senza indugio:
— Stavate cercandomi?
— Ma nemmeno per idea! — protestò l’uomo in grigio.
— Non vi ho mai visto in vita mia.
— E spero che non ci rivedremo più — rispose Farr.
Dopo pochi minuti, si trovava ancora su una vetturetta della sotterranea, e indicò sul quadrante Altadena. La vettura si mosse ronzando. Farr era perplesso e turbato: come avevano fatto a trovarlo? Attraverso il condotto della sotterranea? Gli pareva impossibile. Per maggior sicurezza, cancellò Altadena sul quadrante e indicò Pomona.
Cinque minuti dopo, passeggiava con apparente noncuranza per Valley Boulevard. Dopo altri cinque minuti aveva individuato la sua ombra: un giovane operaio con il volto inespressivo. “Sono pazzo?” si domandò Farr. “Mi sta venendo la mania di persecuzione?” Per accertarsene, fece un lungo e tortuoso giro: l’operaio continuò a seguirlo.
Farr entrò in un ristorante e chiamò sullo stereoschermo la Squadra Speciale, chiedendo dell’ispettore Kirdy.
Dopo averlo salutato, Kirdy gli assicurò che non aveva ordinato ad alcuno dei suoi uomini di seguirlo. Sembrava molto interessato al racconto di Farr, e gli disse: — Aspettate in linea. Controllo gli altri dipartimenti.
In capo a qualche minuto, Farr vide entrare nel ristorante l’operaio che, con l’aria più naturale di questo mondo, sedette in disparte e ordinò un caffè.
— Noi della polizia non c’entriamo — disse Kirdy quando fu tornato. — Forse si tratta di qualche agenzia privata.
— Non ci si può far niente? — domandò Farr seccato.
— Vi hanno dato fastidio?
— No.
— In questo caso, non possiamo intervenire. Scendete in un condotto così li seminerete.
— Ho già provato due volte, ma è stato inutile.
Kirdy rimase sorpreso. — Vorrei che mi dicessero come hanno fatto… Noi non pediniamo più gli individui sospetti perché grazie alla sotterranea riescono sempre a sfuggirci.
— Proverò ancora una volta — disse Farr. — Poi ci sarà da divertirsi.
Uscì dal ristorante, e l’operaio, ingollato in fretta il caffè, gli tenne dietro.
Farr scivolò in un condotto, aspettò, ma l’operaio non lo seguì. Allora chiamò una vettura e, dopo essersi accertato che non c’era nessuno in vista, indicò sul quadrante Ventura. La vetturetta si avviò; era davvero inconcepibile che riuscissero a seguirlo attraverso la sotterranea.
A Ventura, la sua ombra era una massaia, molto carina, che pareva occupata a far spese.
Farr balzò in un altro condotto, e si diresse a Long Beach. Qui ritrovò l’uomo in grigio che aveva già attirato la sua attenzione a Signal Hill. Quando Farr gli si avvicinò, quello lo fissò imperturbabile, con una espressione che sembrava dire: “Cosa vuoi?”.
Signal Hill. In fondo distava solo un paio di miglia. Non era meglio, forse, andare da K. Penche?
No!
Farr sedette a un caffè all’aperto e ordinò un panino. L’uomo in grigio andò a sedersi poco lontano, e chiese del tè ghiacciato. Farr avrebbe voluto affrontarlo e fargli dire la verità, anche con la forza… ma si trattenne, perché la faccenda poteva prendere una brutta piega. Che cosa ne avrebbe ricavato, finendo in prigione? Era Penche il responsabile di quella persecuzione? Farr scartò l’idea, per quanto con riluttanza. L’uomo di Penche stava allontanandosi dal banco dell’albergo quando lui era uscito. Non poteva aver fatto in tempo a seguirlo o a diramare l’allarme.
E allora, chi? Omon Bozhd?
Farr sedeva rigido, poi scoppiò in una stridula risata, facendo voltare la gente. L’uomo in grigio gli lanciò un’occhiata di cauta disapprovazione. Farr continuò a ridacchiare, per sfogare la tensione. Si trattava di una cosa talmente semplice che avrebbe dovuto pensarci prima!
In cielo, a cinque o sei miglia d’altezza, doveva librarsi un battello aereo iszico, con un visore sensibile e una radio. Dovunque Farr andasse, il marchio irradiante che gli avevano impresso sulla spalla rivelava la sua posizione. Sul visore, Farr era chiaramente distinguibile, come un faro.
Andò a chiamare Kirdy, e quando gli ebbe spiegato di che si trattava, l’ispettore rispose: — Avevo già sentito parlare di questa cosa. A quanto pare funziona.
— Altroché, se funziona! — convenne Farr. — C’è modo di schermare le radiazioni?
— Aspettate. — Dopo cinque minuti, Kirdy riapparve sullo schermo. — Restate lì. Manderò un uomo con uno schermo.
Quando l’agente arrivò, Farr si recò nella toletta e avvolse uno strato di lana di metallo intorno alla spalla e al petto.
— E adesso — commentò torvo fra sé — staremo a vedere!
L’uomo in grigio lo seguì con aria noncurante fino al più vicino condotto della sotterranea. Farr si fece portare a Santa Monica. Risalì alla superficie alla stazione di Ocean Avenue, e si diresse verso nordest lungo Whilshire Boulevard, e poi tornò indietro verso Beverly Hills. Era solo. Nessuno lo seguiva. Farr ridacchiò soddisfatto, immaginando la delusione dell’Iszico addetto al visore.
Entrò al Club del Capricorno, un locale di dubbia fama, in cui aleggiava un gradevole odore vecchiotto di segatura, cera e birra. Si diresse allo stereoschermo e chiamò l’Imperador. Sì, c’era un messaggio per lui. L’impiegato inserì il nastro registrato nell’apparecchio, e Farr poté vedere per la seconda volta il viso massiccio e sardonico di Penche. La sua voce roca e profonda aveva un tono conciliante, e pareva che parlasse dopo aver scelto e soppesato con cura le parole. — Vorrei vedervi al più presto, se non vi spiace, signor Farr. Ci rendiamo conto ambedue che occorre discrezione. Sono certo che la vostra visita sarà utile tanto a voi quanto a me. Vi aspetto.
Lo schermo si offuscò, poi ricomparve, il viso dell’impiegato. — Devo cancellare o registrare, signor Farr?
— Cancellate. — Farr uscì dalla cabina e andò a mettersi in fondo al bar. — Che cosa volete? — domandò il barista.