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— Sono Farr.

— Dovrete espletare alcune formalità.

Le formalità gli presero tre ore. Farr fu affidato di nuovo agli Szecr, che lo esaminarono a fondo; infine lo lasciarono libero. Un giovane che portava le mostrine gialle e verdi degli Szecr lo scortò sino a una gondola che si dondolava sulla laguna, un’imbarcazione lunga e snella manovrata con un solo remo. Farr vi prese posto e vogando arrivò fino alla città di Jhespiano.

Era la prima volta che vedeva coi propri occhi una città iszica, e l’impressione fu notevolmente diversa dell’immagine che se ne era fatta. Le case crescevano a intervalli irregolari fra i viali e i canali ed erano massicci tronchi contorti, dai quali prima emergeva una specie di enormi baccelli inferiori, e poi spuntavano ammassi di grandi foglie che ricoprivano quasi totalmente i baccelli superiori. Qualcosa si mosse nella mente di Farr, un’associazione d’idee… lieviti o mixomiceti al microscopio. Lamproderma violaceum? Dictydium cancellatum? La proliferazione dei rami era la stessa. I baccelli avrebbero potuto anche essere enormi sporangi. La perfetta, geometrica simmetria degli archi era uguale, identici gli strani e complessi colori: blu cupo con la parte inferiore di un vivido grigio; arancione scuro con sfumature rossastre, rosso con una patina di splendente porpora, verde tenero, bianco ravvivato di rosa, marrone chiaro e via via più cupo, quasi nero. Nei viali si affollavano gli Iszici, gente pallida e tranquilla, sicura al riparo delle sue corporazioni e delle sue caste.

La gondola scivolò verso l’approdo, dove stava ad aspettare un Iszico in berretto giallo gallonato di verde, certo un uomo qualunque, perché gli Szecr tenevano segreti i dubbi e le informazioni relativi a Farr.

Non avendo alcun motivo d’indugiare, il botanico si avviò lungo un viale, verso uno dei nuovi alberghi cosmopoliti. Nessuno Szecr cercò di fermarlo. Ormai era libero, anche se sotto continua sorveglianza.

Farr si riposò bighellonando, durante una settimana, nei viali della città. Incontrò pochi visitatori provenienti da altri mondi, in quanto le autorità di Iszm scoraggiavano il più possibile il turismo, pur senza violare il Trattato di ammissione. Farr cercò di ottenere un colloquio col Presidente del Consiglio d’esportazione, ma un funzionario lo dissuase con modi tanto cortesi quanto decisi, facendogli capire benissimo che era al corrente del fatto che Farr voleva prendere accordi per l’eventuale esportazione di case di qualità scadente. Farr non se la prese, perché se l’era aspettato. Esplorò in gondola canali e lagune, passeggiò per i viali, seguito a turno da almeno tre Szecr che lo tenevano d’occhio nei viali, o dai baccelli più vicini alle terrazze pubbliche.

Una volta, Farr si spinse lungo il bordo della laguna fino all’estremo lembo dell’isola, una zona tutta sabbia e rocce esposta ai venti e al sole. Qui vivevano le caste più basse, in modeste case a tre baccelli che crescevano in lunghe file su viali di sabbia infuocata. Queste abitazioni erano di un colore neutro, grigioverde sfumato di marrone con un ciuffo centrale di grosse foglie che ombreggiavano i baccelli stessi. Non era permesso esportare case di quel tipo, e Farr, uomo dotato di profonda coscienza sociale, si sentì avvampare d’indignazione. Era una vergogna che simili case non potessero essere offerte ai miliardi di terrestri bisognosi! Un intero quartiere di abitazioni come quelle sarebbe costato pochissimo: il solo costo della semente! Farr si avvicinò a una casa e sbirciò dentro un baccello che pendeva basso. In quel momento cadde un ramo e se Farr non fosse stato pronto a scostarsi, sarebbe rimasto schiacciato, invece fu sfiorato solo dalle foglie. Uno Szecr, che sostava a una ventina di metri, si avvicinò dicendo: — Vi consiglio di non molestare le piante.

— Non stavo molestando nessuno!

— L’albero la pensava diversamente — replicò lo Szecr con sicurezza. — Hanno imparato a sospettare degli stranieri. Fra le caste inferiori — e lo Szecr sputò con disprezzo — ci sono faide e liti in continuazione, e gli alberi si trovano a disagio in presenza di stranieri.

Farr si volse a esaminare la pianta con rinnovato interesse: — Intendete dire che l’albero possiede una mente cosciente?

Lo Szecr rispose con un’indifferente alzata di spalle.

— Ma perché non esportate queste piante? — continuò Farr. — Sarebbe un commercio fiorentissimo. Ci sono fin troppe persone che si accontenterebbero di abitazioni come queste, non potendosene permettere di migliori.

— Vi siete risposto da solo — replicò lo Szecr. — Chi ha il monopolio sulla Terra?

— K. Penche.

— È ricco?

— Ricchissimo.

— Sarebbe altrettanto ricco se vendesse tuguri come questi?

— Credo.

Lo Szecr fece per allontanarsi. — Comunque — concluse — noi non vogliamo trarne profitto. Non è meno difficile sradicare, imballare e spedire queste case che non quelle di classe AA che abbiamo deciso di esportare… E mi raccomando di non cercar più di esaminare così da vicino una casa. Potreste farvi male sul serio. Le case non sono così indulgenti verso gli intrusi come lo sono i loro abitanti.

Farr continuò a vagabondare per l’isola, giungendo in una zona dove si estendevano frutteti in cui crescevano rozzi arbusti al cui centro spuntavano ciuffi di baccelli color ebano lunghi una decina di centimetri e del diametro di due e mezzo lisci, lustri, rigidi. Farr cercò di esaminarli da vicino, ma lo Szecr intervenne immediatamente.

— Non sono alberi-casa — protestò Farr — e comunque non ho intenzione di fare danni. Sono un botanico e le piante insolite m’interessano.

— Non importa — disse lo Szecr, un tenente. — Né le piante né i ceppi che le producono sono di vostra proprietà e quindi non vi devono interessare.

— A quanto pare gli Iszici non danno alcun credito alla curiosità intellettuale — osservò Farr.

— In compenso ce ne intendiamo moltissimo di rapine, furti, sfruttamento, imbrogli.

Farr non seppe cosa rispondere e, con un sorrisetto acido, continuò la sua passeggiata lungo il litorale per poi tornare verso i baccelli e le foglie multicolori della città.

C’era un aspetto della sorveglianza a cui era sottoposto che gli dava da pensare. Additando un agente poco lontano, domandò al tenente Szecr: — Perché mi imita? Se mi siedo, si mette lui pure a sedere. Se bevo, beve anche lui. Se mi gratto il naso, si gratta il naso.

— Si tratta di una tecnica speciale — spiegò l’altro. — Così impariamo a indovinare i vostri pensieri.

— Non è possibile.

— Forse Farr Sainh ha ragione — ammise il tenente con un inchino.

— Siete davvero convinti di riuscire a prevedere le mie mosse? — domandò con tono ironico Farr.

— Possiamo limitarci a fare del nostro meglio.

— Oggi pomeriggio ho intenzione di affittare un battello da mare. Lo avevate indovinato?

Il tenente gli mostrò un foglio. — Ho già pronto il permesso. La barca si chiama Lhaiz e ho già ingaggiato l’equipaggio.

2

La Lhaiz era un due alberi che aveva la forma di uno zoccolo olandese, con vele color porpora e una cabina spaziosa Si era sviluppato da uno speciale albero-barca, ed era composta di un unico pezzo: l’albero maestro era stato, in origine, il picciolo del baccello. L’albero di trinchetto, il pennoncino, il boma e il sartiame erano stati aggiunti in un secondo tempo, operazioni fastidiose per un abitante di Iszm quanto il moto meccanico per un ingegnere elettronico della Terra. L’equipaggio fece vela verso ovest. All’orizzonte si vedevano atolli, che scomparvero poi a poppa. Alcuni erano minuscoli giardini deserti, altri erano adibiti alle seminagioni, alle colture, alle riproduzioni per innesto, ai trapianti, alle selezioni, all’imballaggio e alla spedizione delle case.