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— Vienna Stadtbrau — ordinò Farr.

Il barista girò una grande ruota di quercia ornata di tralci e festonata di vivaci etichette. Centoventi posizioni della ruota corrispondevano ad altrettanti depositi di vini, liquori e bevande varie. Spinse una leva e una bottiglia scura scivolò fuori dal dispensatore. Il barista versò il contenuto della bottiglia in un bicchiere, spingendolo davanti a Farr.

Questi bevve un sorso e si rilassò, passandosi una mano sulla fronte. Era profondamente turbato. Tutto faceva credere che l’invito di Penche fosse plausibilmente logico. In fin dei conti, pensò stancamente, non sarebbe meglio… Ma subito scacciò l’idea. Era davvero stupefacente come quell’impulso tornasse sotto i più diversi aspetti. Era difficile prevederli e prevenirli tutti, a meno di proibirsi categoricamente di pensare a Penche; ma così facendo doveva ammettere di limitare la propria libertà d’azione. D’altra parte, com’era possibile pensare quando non si era in grado di distinguere fra un insensato impulso del subcosciente e il buonsenso?

Farr ordinò dell’altra bina. Il barista, un tipo basso, con gli occhi sporgenti e un paio di baffetti sottili, si affrettò a servirlo. Farr bevve e tornò ai propri pensieri. Si trattava di un problema psicologico molto interessante, che, se le circostanze fossero state diverse, sarebbe stato divertente risolvere; ma lo toccava troppo da vicino. Cercò allora di ragionare con quell’impulso irrazionale: “Che cosa ci guadagno ad andare da Penche?” Penche aveva alluso a un guadagno. Evidentemente pensava che Farr avesse qualcosa di cui desiderava venire in possesso. Che cosa? Trattandosi di Penche, la risposta non poteva essere che una sola: una casa femmina.

Ma lui non possedeva case femmine, quindi non avrebbe avuto niente da guadagnare andando da Penche.

Tuttavia questo ragionamento non gli diede alcuna soddisfazione. Il sillogismo era troppo ovvio, tanto che dubitava di aver semplificato eccessivamente la questione. Non si poteva dimenticare che gli Iszici recitavano una parte di primo piano in tutta la faccenda. Probabilmente, anche loro erano convinti che lui avesse con sé una casa femmina, e dal momento che avevano fatto di tutto per seguirlo, ignoravano dove e quando l’avrebbe congegnata.

Era altrettanto logico supporre che Penche non voleva che essi venissero a saperlo. Lui era in grado di coltivare case che gli costavano venti o trenta dollari l’una e le rivendeva, se così voleva, anche a duemila dollari. Poteva diventare l’uomo più ricco della Terra, addirittura dell’Universo. I mogol dell’antica India, gli arricchiti dell’epoca vittoriana, i baroni del petrolio, i sindaci paneurasiani potevano andarsi a nascondere, al confronto.

Questo era un aspetto della faccenda. Ma se qualcuno possedeva una casa femmina, Penche avrebbe perso il monopolio. Ricordando il viso di quell’uomo, la bocca dura, il naso a becco, gli occhi che parevano sportelli di una fornace, Farr intuì istintivamente come si sarebbe comportato in tale caso.

La lotta sarebbe stata molto interessante. Penche, probabilmente, sottovalutava le sottigliezze di cui era capace la mente degli Iszici, lo zelo fanatico con cui avrebbero difeso le loro proprietà. Gli Iszici, dal canto loro, forse sottovalutavano la potenza che derivava a Penche dalla sua ricchezza, e il genio tecnico della Terra. Era l’identica situazione dell’antico paradosso: da una parte la forza irresistibile, dall’altra l’oggetto inamovibile. “E io” pensò Farr “ci sono in mezzo. A meno che non riesca a districarmi, rimarrò schiacciato…” Tracannò pensosamente un altro sorso di birra. “Se sapessi meglio che cosa sta accadendo, perché mi trovo coinvolto, perché hanno scelto proprio me, saprei almeno da che parte saltare. Tuttavia ho un asso in mano… almeno così pare.”

Ordinò un altro boccale di birra, poi gli venne in mente che forse lo seguivano ancora, e si guardò rapidamente intorno, ma gli parve che nessuno lo guardasse. Preso il boccale, andò a sedersi a un tavolino appartato.

La faccenda, almeno per quanto riguardava la sua personale partecipazione, aveva avuto inizio con la scorreria dei Thord a Tjiere. Farr aveva destato i sospetti degli Iszici che lo avevano incarcerato lasciandolo solo con l’unico Thord sopravvissuto. Gli Iszici avevano nebulizzato di gas ipnotico la cella nel tronco cavo, facendo addormentare sia Farr che il Thord. Che cos’era successo in quell’intervallo di tempo?

Poi lo avevano rilasciato, facilitandogli — anzi sollecitando — il suo ritorno sulla Terra. Era un’esca, uno specchietto?

E quello che era successo a bordo dell’Andrei Simic? Supponendo che gli Anderview fossero stati agenti di Penche, e avessero saputo che Farr rappresentava un pericolo — ma quale? — che andava eliminato… che cosa c’entrava Paul Bengston? Forse aveva l’incarico di spiare gli altri due, e li aveva uccisi sia per proteggere gli interessi di Penche che per procurarsi una fetta del bottino. Ma non era riuscito nell’intento. E adesso era nelle mani della Squadra Speciale.

Tutto l’insieme della faccenda portava a una conclusione logica, anche se priva di basi sicure: K. Penche aveva organizzato la spedizione dei Thord, spedizione che, per un filo, non era riuscita. Gli Iszici dovevano aver tremato di paura, e tanto avevano fatto che avevano scoperto tutto. Per loro, un po’ di denaro e qualche vita umana sprecata, non contavano nulla. Anche Aile Farr non contava nulla.

Farr rabbrividì.

Una graziosa biondina in verde si fermò al suo tavolo: — Ciao, tu, mi sembri solo soletto — e gli sedette accanto.

Farr sussultò, tanto era nervoso. Fissò a lungo la ragazza, senza aprir bocca, finché lei si agitò nervosamente sulla seggiola. — Sembra che tutte le preoccupazioni del mondo siano cascate sulla tua testa — disse.

— Sto cercando di trovare un cavallo vincente.

— Dove, per aria? — Si infilò in bocca una sigaretta, e sporse le labbra perché lui gliela accendesse. — Dammi un po’ di fuoco.

Farr accese la sigaretta, studiando la ragazza guardandola tra le palpebre socchiuse, scrutandola, cercando di scoprire in lei la nota stonata, la reazione sbagliata. Non l’aveva vista entrare nel bar, ma l’aveva già notata mentre si aggirava fra i tavoli alla ricerca di qualcuno che le offrisse da bere.

— Accetterei volentieri qualcosa — disse la ragazza.

— E dopo che vi ho pagato da bere…?

Lei distolse lo sguardo. — Credo… credo che dipenda da voi.

Farr le chiese il prezzo, senza perifrasi. Lei arrossì, continuando a guardare altrove, e infine balbettò: — Vi sbagliate… No, mi sono sbagliata io… Credevo che mi poteste offrire da bere.

— Lavorate a cottimo per il bar? — le domandò Farr.

— Sì — rispose lei in tono di sfida. — Che cosa c’è di male? È un modo come un altro per passare la sera. Capita di incontrare delle persone simpatiche, a volte. Ma che cosa avete in testa? — domandò poi chinandosi per guardar meglio. — Vi siete fatto male?

— Se vi raccontassi come mi sono ferito, mi dareste del bugiardo.

— Avanti, provate.

— C’era qualcuno che ce l’aveva con me, e mi gettò dentro a un tronco cavo. Caddi fino in fondo alle radici, e una volta arrivato laggiù picchiai forte la testa.

La ragazza lo guardò di traverso, con la bocca piegata in una smorfia. — E poi vedeste dei nanetti rosa che portavano lanterne verdi e un coniglione bianco col pelo folto.

— Ve l’avevo detto! — commentò Farr.

Lei gli sfiorò una tempia con un dito. — Avete i capelli molto lunghi — osservò.

— Voglio tenerli così — rispose Farr scostandosi.

— Fate quel che vi pare — ribatté gelida la donna. — Volete continuare o devo raccontarvi la storia della mia vita?

— Un momento. — Farr si alzò per andare a domandare al barista: — Vedete quella bionda al mio tavolo?