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— Che cosa c’è?

— Viene qui spesso?

— Mai vista in vita mia.

— Non lavora per voi?

— Fratello, ve l’ho appena detto: non l’avevo mai vista prima d’ora.

— Grazie.

Farr tornò al tavolo e fissò ancora a lungo la ragazza.

— Be’? — fece lei alla fine.

— Per chi lavorate?

— Ve l’ho detto.

— Chi vi ha incaricato di seguirmi?

— Non dite sciocchezze — e fece per alzarsi, ma Farr la prese per un polso.

— Lasciatemi, se no mi metto a strillare.

— È quel che spero. Vorrei che venisse la polizia. Tornate a sedervi, altrimenti la chiamo io.

Lei si rimise lentamente a sedere, poi, tutt’a un tratto, gli buttò le braccia al collo mormorando: — Sono così sola! È vero, sai? Sono arrivata ieri da Seattle. Non conosco un’anima… Non fare tanto il difficile! Potremmo divertirci un po’ insieme, non credi?

— Prima parliamo, poi vedremo — rispose Farr.

Provò un acuto dolore alla nuca, dove lo toccava la mano di lei e, con uno scatto, si ritrasse afferrandole un braccio. Lei balzò in piedi liberandosi, con gli occhi scintillanti: — E adesso cosa farai?

Farr tentò di afferrarla, ma lei si scansò. Non riusciva a vederla con chiarezza, e aveva le giunture deboli. Quando cercò di alzarsi, rovesciò il tavolo. Il barista si mise a gridare, scavalcando rapido il banco. Farr riuscì a fare qualche passo barcollando, nel tentativo di raggiungere la sconosciuta che stava allontanandosi come se niente fosse. Il barista la fermò: — Un momento!

Farr si sentiva ronzare le orecchie, ma poté udire la ragazza che diceva: — Scostatevi. Quell’uomo è ubriaco. Mi ha insultato…

Il barista non pareva persuaso. — Qui c’è sotto qualcosa di losco.

— Be’, non voglio esserci immischiata.

Farr sentì che le ginocchia non lo reggevano più, e cadde pesantemente, mentre un groppo duro gli chiudeva gola e stomaco. Si sentì afferrare rudemente, e la voce del barista disse: — Cosa succede? Non sopporti la birra?

Mentre le tenebre lo stavano inghiottendo, Farr riuscì a mormorare con voce spessa: — Chiamate Penche… Chiamate il signor K. Penche.

— K. Penche — commentò qualcuno. — Ma quello lì e matto!

— K. Penche — ripeté con voce sempre più debole Farr. — Vi pagherà… Ditegli che… Farr…

11

Aile Farr stava morendo. Era sommerso da un caos di forme rosse e gialle che roteavano schiacciandolo col loro peso. Quando si sarebbero fermate, quando le forme si sarebbero raddrizzate e ritirate, quando il rosso e il giallo si fossero fusi in un tutto nero… Aile Farr sarebbe morto.

Vide la morte avvicinarsi, scivolando come il crepuscolo attraverso il tramonto della sua vita… Poi percepì un moto brusco, discordante: qualcosa di verde esplose fra il rosso e il giallo… e Farr si ritrovò ancora vivo.

Un dottore era chino su di lui, con una siringa in mano. — Ce l’ha fatta per un miracolo — disse, mentre le pietose tenebre dell’incoscienza inghiottivano Farr.

— Chi è? — domandò il poliziotto.

Il barista lanciò un’occhiata scettica a Farr: — Ha detto di chiamare Penche.

— Penche! K. Penche?

— Ha detto così.

— Be’, chiamiamolo. Alla peggio, ci farà una sfuriata.

Il barista andò allo schermo, mentre il poliziotto restava col dottore ancora chino su Farr.

— Che cosa gli è successo? — domandò.

— Non è facile stabilirlo — rispose il dottore scrollando le spalle. — Cose di donne… Ci sono tanti sistemi per liberarsi di un uomo, al giorno d’oggi.

— Quella ferita alla testa…

Il dottore esaminò il cuoio capelluto di Farr. — No, è una vecchia ferita. È stato colpito alla nuca. Ecco il segno.

— Penche dice che viene subito — riferì in quella il barista.

Tutti fissarono Farr con rispetto.

Entrarono nel bar due barellieri, e il medico si alzò: — È arrivata l’ambulanza.

Gli infermieri deposero la barella e vi fecero scivolare Farr, legandovelo. Poi si avviarono, seguiti dal barista. — Dove lo portate? Devo dirlo a Penche.

— Lo troverà all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

Penche arrivò tre minuti dopo che l’ambulanza era partita. — Dov’è? — furono le sue prime parole.

— Siete il signor Penche? — domandò rispettosamente il barista.

— Certo che è lui — asserì il poliziotto.

— Be’, troverete il vostro amico all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

— Informatevi di quello che è successo qui — ordinò Penche a uno degli uomini del suo seguito, prima di lasciare il bar.

Gli infermieri spogliarono Farr e si stupirono al vedere la lana di metallo che gli avvolgeva il braccio e la spalla.

— Che cos’è?

— Qualunque cosa sia, bisogna toglierla.

La tolsero, lavarono Farr con gas antisettici, gli propinarono alcune iniezioni, e infine lo trasferirono in una stanza tranquilla.

— Quando lo si potrà portare via di qui? — s’informò Penche.

— Un momento, signor Penche — disse l’impiegato.

Penche aspettò che l’altro prendesse informazioni. — Be’, è fuori pericolo.

— Lo si può trasportare?

— È privo di sensi, ma il dottore dice che si può.

— Fatelo accompagnare a casa mia con un’ambulanza, per favore.

— Benissimo, signor Penche. E… vi assumete voi la responsabilità?

— Naturalmente. Mandatemi il conto.

La casa di Penche, a Signal Hill, era un tipo di lusso Classe AA Modello 4, cioè l’equivalente di una casa terrestre da trentamila dollari. Penche vendeva quattro differenti tipi di case di Classe AA a diecimila dollari, oltre a quelle di Classe A, B e BB. Naturalmente gli Iszici coltivavano case molto più lussuose e complesse, per loro uso, case dotate di baccelli intercomunicanti, pareti che emanavano luci fluorescenti, tubazioni da cui uscivano nettare, olio e acqua, con atmosfera sovraccarica di ossigeno, con baccelli fototropici e fotofobici, baccelli che contenevano piscine, che producevano noci e cristalli di zucchero e succulente cialde. Però non esportavano case di questo genere, come non esportavano quelle da tre o quattro baccelli per gente che poteva spender poco. Infatti, sia le une che le altre avevano un costo di imballaggio e spedizione uguale, e non avrebbero reso l’utile adeguato.

Un miliardo almeno di Terrestri non aveva casa; nel Nord della Cina, gli abitanti si ammucchiavano nelle grotte, i Dravidiani vivevano in capanne di fango, gli Americani e gli Europei occupavano cadenti fabbricati suddivisi in appartamenti. Penche trovava che la situazione era deplorevole, e voleva porvi rimedio, ma alla realizzazione del suo progetto si frapponeva un ostacolo insormontabile: quella gente non era in grado di sborsare migliaia di dollari per case di Classe AA, A, BB e B, per quanto Penche fosse più che disposto a vendergliele. Aveva quindi bisogno di case a tre, quattro, cinque baccelli, che gli Iszici si rifiutavano di esportare.

Il problema aveva tuttavia una soluzione ovvia: organizzare un’incursione su Iszm per rubare un albero femmina. Accuratamente coltivato, un albero di quella specie poteva dare migliaia di semi all’anno, e da metà di questi semi sarebbero cresciuti altrettanti alberi femmina. Nel giro di pochi anni Penche avrebbe guadagnato migliaia di milioni.

A molta gente, la differenza fra dieci milioni all’anno e mille milioni all’anno pareva irrilevante. Ma Penche contava il guadagno in unità di milioni, e il denaro non rappresentava per lui un mezzo con cui poter acquistare, ma energia, spinta dinamica, capacità di persuasione e potenza. Per sé, spendeva pochissimo, e conduceva una vita quasi austera: abitava, per reclamizzare i suoi prodotti, in una casa di Classe AA su Signal Hill, quando avrebbe potuto benissimo vivere in una delle isole celesti che giravano in orbita attorno alla Terra; avrebbe potuto adornare la sua tavola di cibi rari ed esotici, di preziosi vini e rari liquori provenienti dal più lontani pianeti; avrebbe potuto farsi un harem quale mai nessun sultano aveva neppure sognato. Invece, Penche mangiava bistecche e beveva caffè. Era scapolo, e indulgeva ai piaceri solo nei rari casi in cui gli affari gli concedevano un po’ di respiro. Come certi uomini di talento che sono privi di orecchio musicale, così Penche era sordo agli allettamenti della civiltà.