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Riconosceva le sue manchevolezze, e talvolta ne provava rammarico, e questa sua incapacità di godere la vita lo faceva infuriare. Ma per lo più, K. Penche si limitava a essere serio e sardonico. Altri uomini avrebbero potuto cedere alle lusinghe, alle belle parole, ma Penche no, e si serviva di questa sua incapacità come un carpentiere si serve di un martello, senza curarsi della natura intrinseca dell’utensile. Osservava e agiva senza illusioni né pregiudizi, e questa era forse la sua forza più grande, lo spietato occhio interiore che giudicava tanto lui che il mondo esteriore con la stessa inflessibile obiettività.

Quando l’ambulanza atterrò sul prato, Penche era nel suo studio. Uscì sul terrazzo e stette a guardare i barellieri che reggevano la barella. Con quella voce roca e profonda che colpiva tutti come un urlo, domandò: — È in sé?

— Comincia a riprendere conoscenza, signore.

— Portatelo su.

12

Aile Farr si svegliò in un baccello con le pareti color giallo polvere, e il soffitto a volta scuro su cui sporgevano sottili venature. Sollevò la testa per guardarsi intorno e vide che i mobili erano scuri e semplici: qualche sedia, una poltrona, un tavolo ingombro di carte, un paio di modellini di case e un’antica credenza spagnola.

Un uomo coi capelli crespi, la testa grossa e gli occhi penetranti, si chinò su di lui. Indossava un camice bianco e odorava di antisettici: era un dottore.

Dietro a lui, c’era K. Penche. Era alto e grosso, ma non quanto Farr si era immaginato vedendone l’immagine sullo schermo. Attraversò la stanza lentamente, e si chinò su di lui.

Qualcosa si destò nella mente di Farr, l’aria gli riempì la gola, le sue corde vocali vibrarono; la bocca, la lingua, i denti e il palato modellarono le parole. Farr le ascoltò, stupefatto.

— Ho l’albero.

Penche assentì. — Dove?

Farr lo guardò senza capire.

— Come avete fatto a portarlo via da Iszm? — domandò ancora Penche.

— Non lo so — Farr si drizzò appoggiandosi sul gomito, e si passò una mano sul mento. — Non so quel che ho detto. Non ho nessun albero, io.

— Insomma, l’avete o non l’avete? — sbottò irritato Penche.

— Non l’ho — rispose Farr tentando di mettersi a sedere. Il dottore lo aiutò passandogli un braccio dietro le spalle. Farr si sentiva debolissimo. — Che cosa faccio qui? Qualcuno mi ha avvelenato. Una bionda, nella taverna. — Fissò Penche con ira. — Lavorava per voi.

Penche annuì. — Lo ammetto.

— Come avete fatto a trovarmi?

— Avete chiamato l’Imperador al teleschermo. Un mio incaricato ha scoperto da dove veniva la chiamata.

— Be’ — commentò Farr. — È tutto uno sbaglio… come, perché o che cosa, non lo so. So solo che sto male, e non mi va!

— Come sta? — domandò Penche al dottore.

— Bene. Fra poco avrà ripreso completamente le forze.

— Ottimo. Potete andare.

Il dottore lasciò il baccello. Penche si mise a sedere. — Anna ha esagerato — dichiarò. — Non doveva ricorrere all’ago. Be’, parlatemi di voi.

— In primo luogo voglio sapere dove sono — ribatté Farr.

— In casa mia. Mi prenderò io cura di voi.

— Perché?

— Siete stato incaricato di portarmi un albero, un seme o un germoglio. Qualunque cosa mi abbiate portato, la voglio.

— Non l’ho — rispose Farr, dominandosi a stento. — Non ne so niente. Ero a Tjiere nel corso della scorreria… di più non ho fatto.

Con voce calma ma venata di sospetto, Penche domandò: — Perché mi avete chiamato, appena siete arrivato in città?

Farr scosse la testa. — Non lo so. Sentivo di doverlo fare e l’ho fatto. Sentivo anche di dovervi dire che avevo un albero, ma non so perché. Non è vero…

— Vi credo. Dobbiamo scoprire dov’è l’albero. Forse ci vorrà del tempo, ma…

— Vi ho detto e ripetuto che non ho nessun albero, e non m’interessa. — Riuscì ad alzarsi e si mosse verso la porta. — Vado a casa.

Penche lo guardò divertito. — Le porte sono chiuse, Farr.

Farr gli credette sulla parola, ma sapeva che la nervatura che avrebbe permesso alla porta di aprirsi era inserita nella parete. Tastò la superficie gialla rugosa…

— Non da quella parte, Farr. Tornate qui.

La porta si aprì. Nella fessura stava Omon Bozhd. Indossava un abito strettissimo a strisce bianche e azzurre e un ampio mantello bianco dal collo rialzato. Aveva un’espressione placida e austera, piena di forza, che era forza umana ma non terrestre.

L’Iszico entrò nella stanza seguito da due compatrioti vestiti a strìsce gialle e verdi: due Szecr. Farr si scostò per lasciarli entrare.

— Salve — li salutò Penche. — Credevo di aver chiuso ermeticamente la porta, ma voialtri conoscete tutti i trucchi.

Omon Bozhd annuì educatamente e rivolgendosi a Farr disse: — Oggi vi abbiamo perduto, per qualche ora. Sono lieto di rivedervi. — Guardò Penche, poi tornò a Farr. — A quanto vedo, la vostra destinazione era la casa del signor Penche.

— Così pare — ammise Farr.

— Quando vi trovavate nella cella, a Tjiere — spiegò l’Iszico — noi vi anestetizzammo con un gas ipnotico. Il Thord se ne accorse, quando immettemmo il gas, e trattenne il respiro per sei minuti. Quando voi perdeste i sensi effettuò un trasferimento di pensiero, inserendo nel vostro subconscio alcune istruzioni, quindi vi diede l’albero… Non si può dire che non abbia servito a dovere il suo padrone — aggiunse lanciando un’occhiata a Penche, che non fece commenti. — Trascorsi i sei minuti, fu costretto a respirare e perdette anche lui i sensi. Più tardi, vi conducemmo da lui, nella speranza che rivelaste quanto vi aveva detto, ma l’esperimento fallì, perché il Thord dimostrò di possedere una forza fisica eccezionale, quale noi non avevamo previsto.

Farr guardò Penche, che se ne stava indolentemente appoggiato al tavolo. L’atmosfera era carica di tensione, e pareva che bastasse un niente per farla esplodere.

Senza più curarsi di Farr, Omon Bozhd riprese a dire: — Sono venuto sulla Terra con due incarichi, signor Penche. Devo innanzitutto informarvi che la fornitura di case AA non verrà consegnata a causa dell’incursione sull’atollo di Tjiere…

— Be’, mi spiace molto.

— E in secondo luogo devo scoprire l’uomo a cui Aile Farr deve portare il suo messaggio.

— Non avete scandagliato la mente di Farr? — domandò Penche. — Come mai non l’avete scoperto?

— Il Thord — spiegò l’Iszico con l’imperturbabile cortesia della sua razza — aveva ordinato a Farr di dimenticare tutto, e di ricordare solo quando fosse stato di ritorno sulla Terra. Quel Thord era dotato di enorme forza mentale, e Farr Sainh possiede un cervello eccezionalmente tenace. Non ci restava che seguirlo. La sua destinazione era questa: la vostra casa, signor Penche. Perciò posso compiere la mia seconda missione.

— E allora? Di che si tratta? Sputate fuori — disse Penche.

Omon Bozhd s’inchinò, e con la solita compostezza riprese: — Non vi avevo riferito tutto il primo messaggio, Penche Sainh. Voi non riceverete la più case AA, non solo, ma non ne riceverete mai più di alcun genere. E se mai metterete piede su Iszin sarete condannato per il delitto che avete compiuto contro di noi.