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Penche sorrise divertito. — Dunque, non sono più il vostro rappresentante.

— Esatto.

Penche si rivolse a Farr e, con voce tagliente, gli domandò: — Dove sono gli alberi?

Involontariamente, Farr si portò la mano alla testa: la ferita gli bruciava.

— Venite qui, Farr — ordinò Penche. — Fatemi dare un’occhiata.

— Giù le mani. Non voglio togliere le castagne dal fuoco per nessuno.

— Il Thord inserì sei semi sotto la pelle del cranio del signor Farr — spiegò Omon Bozhd. — È un nascondiglio davvero ingegnoso. I semi sono piccolissimi, e anche noi impiegammo mezz’ora a trovarli.

Farr si toccò il cranio disgustato.

— State fermo — gl’intimò duramente Penche. — Lasciatemi vedere.

— No!

— Non vorrete mettervi dalla parte degli Iszici, vero?

— Non voglio mettermi dalla parte di nessuno. Se mi hanno inserito i semi sotto la pelle, è affar mio. Voi non c’entrate.

Penche si fece avanti, con espressione cattiva.

— I semi sono stati tolti, Penche Sainh — l’informò Omon Bozhd. — I bernoccoli che sente in testa sono pallottole di tantalio.

Farr si tastò la cute: c’erano effettivamente sei minuscoli bozzi… Senza volerlo, guardò prima Penche poi l’Iszico, ma loro non gli badavano. Tornò a tastarsi la testa: da uno dei bozzi usciva un filamento… Anna, la bionda della taverna, aveva detto che aveva i capelli lunghi. O un capello lungo…

— Ne ho abbastanza — disse con voce rotta. — Voglio andarmene.

— Non ancora — replicò duro Penche. — Restate qui.

— Credo che sia illegale trattenere qualcuno contro la sua volontà — intervenne Omon Bozhd — e se noi non protestassimo saremmo vostri complici, non è vero?

— In un certo senso — ammise Penche.

— Per proteggerci, insistiamo dunque a chiedervi di non commettere atti illegali.

— Voi avete trasmesso il messaggio. Adesso andatevene! — gridò furibondo Penche.

— Me ne vado anch’io — trovò la forza di dire Farr. — Sono stufo di fare lo zimbello.

— Meglio fare lo zimbello vivo che il furbo morto.

— Correrò il rischio.

Omon Bozhd fece un cenno ai due Szecr che si posero ai lati della porta.

— Potete andarvene — disse Omon Bozhd a Farr. — Il signor Penche non si opporrà.

— Non ho nessuna intenzione di stare dalla vostra parte — dichiarò Farr e, dopo essersi guardato intorno, si avviò verso lo schermo.

Penche espresse la sua approvazione con un cenno, mentre l’Iszico esclamava: — Farr Sainh!

— È perfettamente legale — intervenne Penche. — Lasciatelo fare.

Farr manovrò i pulsanti. Lo schermo si illuminò. — Passatemi Kirdy — ordinò Farr.

Omon Bozhd fece un cenno, e uno degli Szecr tagliò il cavo. Lo schermo si spense.

— Guarda chi parlava di illegalità! — tuonò Penche. — Avete isolato la mia casa!

Omon Bozhd stirò le labbra mettendo in mostra i denti aguzzi e le gengive pallide: — Non ho ancora finito…

Penche alzò la mano sinistra. Dall’indice scaturì una fiammata arancione. Omon Bozhd roteò su se stesso: la lingua di fuoco gli aveva mozzato un orecchio. Gli altri due incominciarono a tastare con gesti abili ed esperti le pareti, squarciandole. Penche allungò una seconda volta il dito. Farr si slanciò prendendolo per le spalle e facendolo roteare su se stesso. Penche torse la bocca e allungò il pugno in un corto uppercut che colpì Farr allo stomaco. Farr arretrò barcollando, e tirò un diretto a vuoto. Penche si precipitò verso gli Iszici che avevano già varcato la soglia. La porta si richiuse alle loro spalle. Farr e Penche erano rimasti soli nel baccello.

Farr avanzò e Penche si ritrasse.

— Pazzo che non siete altro… — ansimò Penche. Il baccello fu scosso da un tremito e si inclinò. Il pavimento scricchiolava.

— Ma insomma, da che parte state? Siete un Terrestre e lavorate per gli Iszici? — riprese Penche.

— Voi non siete un Terrestre — replicò Farr. — Voi siete solo K. Penche. E io non sto dalla parte di nessuno. Sono stufo di fare la marionetta!

Si sentiva debole e faticava a reggersi.

— Lasciatemi vedere che cos’avete in testa.

— State lontano da me, altrimenti vi spacco la faccia!

Il pavimento del baccello s’inclinò come quello di un trampolino, mandando Farr e Penche a rotolare in fondo alla stanza. — Che cosa hanno fatto? — si domandò Penche preoccupato.

— Sono Iszici, e questa è una delle loro case — rispose Farr. — Se vogliono, possono servirsene come un musicista si serve del suo strumento.

Il baccello vibrò ancora, poi si fermò con una brusca scossa. — Ecco, è finito — disse Penche. — E adesso, avanti, fatemi vedere che cosa avete nella testa.

— State lontano, vi ho detto… Qualunque cosa abbia, è mia.

— No, è mia — corresse Penche. — Sono stato io a pagare perché ve la piantassero nella pelle.

— Non sapete neanche di che cosa si tratti.

— Sì che lo so. Lo vedo benissimo. È un germoglio.

— Siete pazzo. Un seme non può aver attecchito nella mia testa.

Il baccello si irrigidì inarcandosi come la schiena di un gatto, mentre il tetto scricchiolava. — Dobbiamo uscire di qui — mormorò Penche. Il pavimento era scosso da violenti sussulti. Penche si precipitò a premere la nervatura che avrebbe dovuto aprire la porta, ma questa rimase chiusa.

— Hanno reciso il nervo! — esclamò Farr.

Il baccello s’inclinò, e il tetto a centina scricchiolò più forte. Trac! Una centina si spezzò in una pioggia di frammenti. Un frammento, pesante e acuminato, mancò di poco Farr.

Penche puntò l’indice contro la porta che reagì alla fiammata con una densa nuvola di vapore ardente.

Penche arretrò tossendo.

Altre due centine si schiantarono.

— Se riescono a colpirci ci ammazzano — gridò Penche fissando il soffitto. — State attento!

— Aile Farr: la serra ambulante… Non riuscirete a cogliermi…

— Non perdete la testa, Farr. Venite qui.

Il baccello sussultò, e il mobilio prese a slittare. Schegge di legno schizzavano ovunque. Pareva il finimondo. Sussulti, scosse, crepitii, e il mobilio che scivolava da una parte all’altra del locale mentre Farr e Penche tentavano disperatamente di non farsi schiacciare.

— La manovrano dall’esterno — ansimò Farr. — Ne tirano i nervi…

— Se potessimo uscire sulla terrazza.

— Precipiteremmo…

Le scosse andavano aumentando d’intensità, e frammenti di legno e mobili saltavano su e giù come piselli in una scatola. Penche si teneva aggrappato alla scrivania, cercando di impedire che si muovesse e facendosene scudo. Farr, afferrato un pezzo di costola, andava tastando le pareti.

— Cosa fate?

— Quegli Iszici hanno colpito qui. Devono aver reciso dei nervi. Sto cercando di colpirne altri.

— Ma così, forse, ci ucciderete… Non dimenticate il germoglio.

— Avete più paura per il germoglio che per voi — rispose Farr continuando a tempestare di colpi la parete.

Quando colpì un nervo, il baccello s’immobilizzò irrigidendosi, e dalla parete cominciò a uscire una gran quantità di siero denso. Il baccello fu scosso da un violento sussulto, che si ripercosse sul suo contenuto, emanando un gemito vibrante, che sembrava il lamento di un’anima in pena. Il pavimento s’inarcò ancora una volta, e il soffitto incominciò a cedere.

— Siamo perduti — esclamò Penche. Farr scorse uno scintillio metallico: la siringa del dottore. L’afferrò e conficcò l’ago in una venatura prominente, verdiccia, premendo a fondo lo stantuffo.