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Poco dopo ricomparve la donna che lo aveva accolto nell’atrio. Lo salutò con un’elaborata genuflessione. Ignorante com’era del cerimoniale, Farr non riuscì a capire se, come gli era parso, il gesto celasse un sottofondo ironico. Si riservò di giudicare in un secondo tempo. Si trattava di una burla? No, gli pareva impossibile, in quanto gli Iszici erano assolutamente privi di senso dell’umorismo.

— Aile Farr Sainh — salmodiò la donna — ora che vi siete rinfrescato, volete raggiungere il vostro ospite Zhde Patasz?

— Quando volete — rispose Farr con un sorriso.

— Allora permettetemi di farvi strada. Vi accompagnerò nei baccelli privati di Zhde Patasz Sainh, che vi attende con impazienza.

Farr la seguì lungo il corridoio, sino a una rampa in discesa, dove il ramo s’inclinava, e di qui, con un ascensore, salirono lungo il tronco principale. Sbucarono in un altro corridoio. Giunti davanti a una porta, la donna si fermò, fece un inchino, e allargando le braccia, disse: — Zhde Patasz Sainh vi attende.

La porta si aprì e Farr entrò nella stanza. Zhde Patasz non era lì, e lui avanzò con circospezione, guardandosi in giro. Il baccello era lungo una decina di metri e si apriva su una balconata intorno a cui correva un’alta balaustra. Le pareti e il soffitto a volta erano ricoperti da una sottile fibra verde intrecciata fittamente, il pavimento era di folto muschio color prugna, e dai muri uscivano bizzarre lampade. Contro una parete erano appoggiate quattro poltrone-baccello color magenta, e al centro del pavimento era posato un alto vaso cilindrico pieno d’acqua, di piante e di brune anguille guizzanti. Ai muri pendevano quadri di antichi maestri terrestri, che spiccavano in modo strano in quell’ambiente inusitato.

— Farr Sainh — salutò Zhde Patasz entrando dalla balconata — spero che vi sentiate bene.

— Abbastanza — rispose cauto Farr.

— Volete accomodarvi?

— Ai vostri ordini — disse, prendendo posto su uno dei fragili pericarpi color magenta, la cui morbida pelle si adattò subito alle curve del suo corpo.

Zhde Patasz sedette anche lui, e seguì un lungo silenzio durante il quale i due si esaminarono a vicenda Zhde Patasz ostentava le strisce azzurre della sua casta e aveva le guance pallide chiazzate da dischi rossi. Non si trattava certo di una decorazione priva di significato, perché Farr sapeva che tutte le esteriorità di cui si fregiavano gli Iszici avevano una loro precisa ragione. Quel giorno, Zhde Patasz non aveva berretto e i nodi e le increspature del suo cranio formavano quasi una cresta, emblema di millenni di discendenza aristocratica.

— Dunque, siete soddisfatto della vostra visita a Iszm? — domandò finalmente l’ospite.

Dopo aver pensato un momento, Farr decise di rispondere in modo formale: — Ho visto molte cose interessanti. Ma sono anche stato fatto oggetto di molestie, che spero non avranno conseguenze permanenti. — Si tastò il cranio, e proseguì: — La vostra ospitalità compensa i maltrattamenti che ho subito.

— È una notizia che mi addolora — commentò Zhde Patasz. — Chi vi ha maltrattato? Datemi i nomi, e farò in modo che siano affogati.

Farr confessò di ignorare i nomi degli Szecr che l’avevano fatto cadere nel vecchio tronco. — E poi — aggiunse — erano preoccupatissimi per l’incursione, e quindi perdonabili. Ma in seguito mi hanno drogato, e questo non lo ammetto.

— Avete ragione — rispose Zhde in tono blando — ma gli Szecr somministrano sempre un gas ipnotico ai Thord, e per uno stupido errore vi hanno rinchiuso nella stessa cella e sottoposto a quell’indegno trattamento. Sono certo che i responsabili sono in preda ai più profondi rimorsi.

— Hanno ignorato i miei diritti legali — protestò Farr indignato. — È stato violato il Trattato di ammissione!

— Spero che vorrete perdonarci — rispose Zhde Patasz. — Capirete anche voi che dobbiamo proteggere le nostre piantagioni.

— Io non avevo niente a che fare con quella scorreria!

— Sì, lo sappiamo.

— Immagino che mentre ero sotto l’effetto della droga mi abbiate estorto tutto ciò che so — fece l’altro con un sorriso amaro.

Zhde Patasz contrasse il filamento che divideva i settori degli occhi, facendo una smorfia che per gli Iszici era l’equivalente di un sorriso divertito.

— Per caso mi hanno informato della vostra disavventura.

— Disavventura? È stato un oltraggio!

Con un gesto conciliante, Zhde Patasz replicò: — Gli Szecr sono soliti sottoporre i Thord a trattamento ipnotico. Si tratta di una razza dotata di enormi capacità sia fisiche che psichiche, nonché di ben note deficienze morali, e proprio per ciò è stata ingaggiata per compiere la scorreria.

— Volete dire che i Thord non agivano per conto proprio? — domandò stupito Farr.

— Non credo. Si trattava di un piano e di un’organizzazione troppo precisi e accurati. I Thord sono una razza impaziente e, di conseguenza, non ci sembra possibile che abbiano organizzato la spedizione. Questo è il nostro parere e siamo ansiosi di scoprire i mandanti.

— Per questo mi avete esaminato sotto ipnosi, violando il Trattato di ammissione!

— Sono certo che le domande si riferivano solo a questioni attinenti la scorreria — rispose Zhde Patasz cercando di calmare Farr. — Forse gli Szecr sono stati troppo zelanti, ma dovete ammettere che si poteva sospettare di voi.

— No, non lo ammetto.

— No? — Zhde Patasz sembrava sorpreso. — Siete arrivato a Tjiere proprio il giorno dell’incursione, avete tentato di sfuggire alla vostra scorta sul molo… perdonatemi se elenco i vostri errori.

— Niente, niente, proseguite pure.

— Sotto l’arcata siete sfuggito di nuovo alla scorta, siete corso nel campo con l’apparente intenzione di partecipare alla scorreria.

— Non è affatto vero!

— Noi abbiamo avuto questa impressione — continuò Zhde Patasz. — L’incursione si è risolta in un completo disastro per i Thord. Abbiamo distrutto la talpa a una profondità di quaranta metri. Non è sopravvissuto nessuno, all’infuori di colui che è stato vostro compagno di cella.

— Che cosa ne sarà di lui?

Zhde Patasz esitò, e parve a Farr di sentire una nota d’incertezza nella sua voce. — In circostanze normali avrebbe potuto considerarsi fortunato. — S’interruppe come per meglio formulare il proprio pensiero prima di esprimerlo. — Abbiamo fiducia nell’effetto persuasivo della punizione. Quell’individuo avrebbe dovuto essere confinato al manicomio.

— E invece?

— Si è suicidato nella cella.

Farr ne rimase turbato, gli pareva che l’uomo bruno fosse legato in qualche modo alla sua sorte e non si aspettava che finisse così…

— Mi sembrate turbato, Farr Sainh — disse Zhde Patasz pieno di premura.

— Non capisco perché dovrei esserlo.

— Siete stanco, o debole?

— Sto riprendendomi un poco alla volta.

Entrò la donna con un vassoio carico di frutti e di bevande e Farr li gustò con piacere, scoprendo che aveva fame. Zhde lo osservava incuriosito. — È strano — commentò — apparteniamo a mondi diversi, discendiamo da diversi ceppi, pure abbiamo in comune abitazioni, paure e appetiti; e proteggiamo ciò che abbiamo, cioè gli oggetti che ci conferiscono un senso di sicurezza.