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Dall’interno della casa veniva la musica di uno strumento a corda, e quando Farr rientrò nella stanza, trovò due servitori che stavano portando un alto credenzino a scomparti, carico di vivande. Farr mangiò cialde, frutta, tuberi marini e pasticcini mentre l’XI dell’Auriga sorgeva all’orizzonte.

Quando ebbe terminato, i servitori sparecchiarono e arrivò la donna iszica che Farr aveva conosciuto la sera prima. Quel mattino aveva una complicata acconciatura fatta coi medesimi nastri neri che le cingevano il corpo a strisce, e che, nascondendole i bitorzoli e le protuberanze del cranio, la rendevano quasi attraente. Dopo averlo salutato nel solito modo quanto mai cerimonioso, disse che Zhde Patasz aspettava che Aile Farr Sainh si disturbasse a recarsi da lui.

Farr seguì la donna nell’atrio che si apriva alla base dell’enorme tronco, dove Zhde Patasz lo stava aspettando insieme a un Iszico che presentò come Omon Bozhd, agente generale degli allevatori di case. Omon Bozhd era più alto di Zhde Patasz, col viso più largo e meno intelligente, e aveva un modo di fare più vivace e confidenziale. Coperto di strisce azzurre e nere, aveva le guance dipinte a dischi neri, costume che, a quanto Farr credeva di ricordare, indicava un appartenente alle caste più elevate. Il comportamento di Zhde Patasz nei confronti di Omon Bozhd era una strana mescolanza di condiscendenza e di rispetto; così almeno parve a Farr, che l’attribuì al contrasto fra la casta cui apparteneva Omon Bozhd e la sua pelle chiarissima di nativo di uno degli arcipelaghi meridionali, se non addirittura del continente meridionale, e che mancava di quella particolare sfumatura azzurrina che distingueva i piantatori aristocratici di Pheadh. Farr, assai perplesso per le straordinarie attenzioni di cui era fatto oggetto, non gli badò più.

Zhde Patasz accompagnò i suoi ospiti a un calesse dai sedili imbottiti, che funzionava automaticamente procedendo su un cuscino d’aria, guidato da un impassibile servitore. Poco prima della partenza, si unì al gruppo un altro Iszico, decorato a strisce blu e grigie, che il Zhde Patasz presentò come Uder Che, architetto capo.

— Naturalmente il termine iszico è diverso — spiccò Zhde Patasz — e comprende un’infinità di altri attributi e significati: biochimico, istruttore, poeta, precursore, amante delle coltivazioni, e altro ancora. Il suo compito, però, tende allo stesso scopo, cioè quello di creare case di nuovo tipo.

Seguivano il calesse alcuni Szecr a bordo di una specie di piattaforma mobile. Farr ebbe l’impressione che uno di essi avesse fatto parte della squadra addetta alla sua sorveglianza, il giorno prima, durante l’incursione dei Thord, ma non poteva esserne certo, perché agli occhi di uno straniero tutti gli Iszici sembravano uguali. Prese in considerazione l’idea di denunciare l’uomo a Zhde Patasz, che aveva promesso di farlo affogare, ma vi rinunciò perché temeva che Zhde si sarebbe sentito in dovere di mantenere la parola.

Il calesse procedeva scivolando sotto le grandi case-albero al centro della città, e poi infilò una strada che costeggiava un susseguirsi di piccoli campi. Qui crescevano i germogli grigioverdi nei quali Farr riconobbe cuccioli di case.

— Case di Classe AAA e AABR per i supervisori dei lavori del continente meridionale — spiegò Zhde Patasz con aria di superiorità. — Più oltre ci sono case a tre e a quattro baccelli per gli artigiani. Ogni distretto ha le sue particolarità che lo differenziano completamente dagli altri, e non starò ad annoiarvi descrivendovele. Le case da esportazione non sono tanto accurate, naturalmente, perché appartengono a un unico tipo, e vengono coltivate con relativa facilità.

Farr ebbe l’impressione che l’aria di superiorità ostentata da Zhde Patasz stesse aumentando. — Se foste disposti a esportarne di diversi tipi — disse — le vostre vendite subirebbero un notevole aumento.

Tanto Zhde Patasz quanto Omon Bozhd assunsero un’espressione divertita. — Vendiamo all’estero tutto quello che c’interessa vendere. Perché voler fare di più? Chi sarebbe in grado di apprezzare le qualità uniche, eccezionali delle nostre case? Voi stesso avete detto che i Terrestri considerano le abitazioni solo come un riparo dalle intemperie.

— Mi avete frainteso, o non mi sono spiegato bene. Ma se anche fosse così, il che non è, sussisterebbe sempre la necessità di tipi diversi di abitazione, tanto sulla Terra che sui pianeti ai quali vendete le vostre case.

— Siete davvero irrazionale — intervenne Omon Bozhd — e vi prego, Farr Sainh, di non considerare offensiva questa parola. Lasciate che mi spieghi meglio. Voi dichiarate che sulla Terra c’è bisogno di case. Sulla Terra c’è anche un eccesso di ricchezze, tanto che sono allo studio molti progetti per poterle impiegare. Queste ricchezze potrebbero risolvere il problema delle abitazioni in un batter d’occhio, purché lo volessero i possessori delle ricchezze. Ma essendo la cosa, a quanto voi dite, molto improbabile, avete posto lo sguardo su noi Iszici, che al confronto siamo relativamente poveri, nella speranza che finiamo col dimostrarci più comprensivi dei vostri plutocrati. Ma scoprendo che abbiamo i nostri interessi da difendere, ve la prendete con noi… ecco perché vi giudico irrazionale.

Farr rise. — Questa è una visione distorta della realtà — dichiarò. — È vero che siamo ricchi. Perché lo siamo? Perché cerchiamo sempre di produrre il massimo col minimo sforzo. E le case isziche rappresentano la minimizzazione degli sforzi.

— Interessante — mormorò Zhde Patasz e Omon Bozhd assentì saviamente. Il calesse si sollevò per sorvolare un folto di cespugli grigi da cui spuntavano grosse bacche nere. Più avanti, si stendeva una lingua di spiaggia su cui si frangeva il calmo mondo oceanico di Pheadh. Il veicolo puntò dritto sulla distesa, dirigendosi verso un isolotto poco lontano.

Con voce solenne, quasi sepolcrale, Zhde Patasz dichiarò: — Ora vi sarà mostrato qualcosa che a ben pochi è concesso di vedere; una stazione sperimentale dove progettiamo e creiamo nuove case.

Farr cercò di trovare una risposta adatta per esprimere il proprio interessamento e la propria gratitudine, ma Zhde Patasz non badava più a lui, così stette zitto.

Quella specie di piattaforma procedeva sul pelo dell’acqua, lasciandosi dietro una lieve scia di spuma candida. La luce dell’XI dell’Auriga scintillava sulla distesa azzurra e Farr pensava che uno spettacolo simile era uguale a tanti panorami marittimi terrestri, se non fosse stato per la presenza di quello strano veicolo, di quegli uomini dalla pelle lattiginosa, e per la forma inusitata degli alberi che crescevano sugli isolotti. In verità, si trattava di alberi che non aveva mai visto nemmeno su Iszm: bassi, tozzi e massicci, con un groviglio di rami neri. Le foglie erano costituite da strisce carnose color marrone, e parevano in perpetuo movimento.

La piattaforma rallentò, dirigendosi verso la spiaggia dell’isola; si fermò a cinque o sei metri da terra. Uder Che saltò nell’acqua che gli arrivava al ginocchio, e avanzò cautamente verso il litorale, portando una scatola nera. Gli alberi reagirono alla sua presenza, inchinandosi dapprima verso di lui, poi arretrando, come in preda all’orrore, e sciogliendo l’intrico dei rami. Dopo qualche istante s’era aperto un varco sufficiente perché potesse passarvi il calesse che, arrivato all’altezza della spiaggia, penetrò nel varco stesso. Uder Che risalì a bordo, e i rami tornarono a intrecciarsi in un groviglio impenetrabile.