Era atterrato su quel paradiso ed era stato affidato a un vecchio floriniano il quale aveva provveduto per prima cosa a farlo lavare e vestire decentemente. Era stato poi condotto in un grande edificio, e, strada facendo, il suo anziano mentore si era inchinato fino a terra davanti a una figura che passava.
«Mettiti in ginocchio!» aveva borbottato, irosamente, il vecchio al giovane Terens.
Terens aveva ubbidito, poi aveva chiesto confuso: «Chi era?»
«Un Signore, zoticone ignorante che non sei altro.»
«Un Signore, quello?»
Si era fermato istupidito, e il vecchio aveva dovuto trascinarlo via quasi di peso. Era la prima volta che Terens vedeva un Signore. Non era alto sei metri come lui si era immaginato, era un uomo come tutti gli altri. Qualcosa in lui era cambiato, e per sempre.
Aveva studiato per dieci anni, e quando non studiava, non mangiava e non dormiva, gli insegnavano a rendersi utile in mille piccoli modi. Gli insegnarono a recapitare messaggi e a vuotare i cesti della carta straccia, a inchinarsi sino a terra quando passava un Signore e a voltare rispettosamente la faccia contro il muro quando passava la Dama di un Signore.
Per altri cinque anni aveva lavorato nella Burocrazia Statale, con continui spostamenti da un impiego all’altro allo scopo di sottoporre le sue capacità alle prove più svariate.
Terens aveva meditato a lungo. Era uomo di poche parole, di modi corretti, ma i suoi pensieri non avevano freno. Odiava i Signori, in parte perché non erano alti sei metri, in parte perché non aveva il diritto di guardare le loro donne, e in parte infine perché ne aveva serviti diversi, a capo chino, e aveva scoperto che nonostante tutta la loro arroganza erano esseri sciocchi.
Ma quale alternativa trovare a un simile stato di schiavitù? Sarebbe stato sciocco e inutile favorire Trantor per liberarsi da Sark. Un padrone vale l’altro. E allora? Non c’era dunque speranza?
Ed ecco che a un tratto si era presentato tutto un complesso di circostanze che gli aveva posto nelle mani una insospettata risposta nella persona del povero essere insignificante che era stato un tempo uno Spazio-Analista e che era a conoscenza di un’oscura minaccia che metteva a repentaglio la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne di Florina.
Mentre rimuginava questi pensieri, Terens era giunto nei campi, dove la pioggia notturna stava cessando e su cui le stelle già scintillavano umide tra le nuvole. Aspirò profondamente l’odore del kyrt, tesoro e al tempo stesso maledizione di Florina.
Non si faceva illusioni. Non era più un Borgomastro, non era nemmeno un contadino floriniano libero: era un criminale, un fuggiasco costretto a nascondersi.
Ciononostante si sentiva pieno d’orgoglio, e di disprezzo per i Signori. Nelle ultime ventiquattr’ore aveva tenuto in pugno un’arma incredibilmente pericolosa per Sark.
Ne era sicuro.
Ed ecco che adesso Rik era caduto nelle mani di un individuo il quale si spacciava per patriota floriniano ma era in effetti un agente di Trantor.
Terens si sentì invadere da una collera amara, sconfinata. Certamente quel Fornaio era una spia trantoriana. Lo aveva capito sin dal primo momento. Chi altri tra gli abitanti della Città Bassa poteva disporre del capitale per costruire finti forni a radar?
Ai limiti dell’orizzonte apparve un tenue chiarore. Avrebbe atteso l’alba. Certo a quell’ora i vari posti di pattuglia dovevano già avere ricevuto i suoi dati segnaletici, ma sarebbero trascorsi vari minuti prima che la sua immagine venisse registrata.
E durante quei pochi minuti egli sarebbe stato ancora un Borgomastro. Ciò gli avrebbe dato il tempo di mettere in atto un piano che persino in quell’istante non osava formulare a se stesso.
Dieci ore dopo il suo colloquio con l’Assistente, Junz tornò da Ludigan Abel.
L’Ambasciatore accolse lo scienziato con la consueta apparente cordialità e tuttavia con una ben definita e sconcertante sensazione di imbarazzo. Al loro primo incontro (verificatosi tanto tempo prima: era trascorso quasi un Anno Unitario) non aveva prestato ascolto al racconto fattogli dal suo interlocutore come a cosa personale. Il suo solo pensiero era stato: “Potrà questo aiutare Trantor?”.
Trantor! Era sempre il suo primo pensiero, ma al tempo stesso egli non era un imbecille che adorava supinamente un gruppo di stelle o il giallo emblema dell’Astronave e del Sole, distintivo delle forze armate trantoriane.
Però era un fanatico assertore della pace, soprattutto adesso che incominciava a invecchiare e gli piaceva godersi il suo buon bicchiere di vino, l’atmosfera che lo circondava, satura di dolci misure di profumi, il sonno pomeridiano, la tranquilla attesa della morte. Così immaginava che tutti gli uomini dovessero sentire; eppure tutti gli uomini indistintamente erano soggetti a guerre e distruzioni continue.
Per porre termine al malgoverno della forza non restava che un’unica soluzione, la forza stessa.
Abel aveva appeso nel proprio studio una carta di Trantor. Era un ovoide cristallino chiaro in cui la lente galattica era stata tracciata tridimensionalmente. Le sue stelle erano puntolini di bianca polvere diamantifera, le sue nebulae erano chiazze di luce o di cupa nebbia, e nelle sue profondità centrali vi era stata la Repubblica Trantoriana.
Non “era” ma “era stata”. Cinquecento anni prima infatti la Repubblica Trantoriana era stata composta di cinque mondi soltanto.
Ma si trattava di una carta storica, e mostrava la Repubblica a quello stadio, soltanto quando il quadrante era messo sullo zero. Bastava farlo avanzare di una tacca e la Galassia vi sarebbe apparsa com’era diventata cinquant’anni più tardi, mentre un fascio di stelle si sarebbe arrossato intorno al cerchio di Trantor.
Movendo il quadrante per dieci volte successive mezzo millennio sarebbe trascorso e il rosso si sarebbe allargato come una gran macchia di sangue finché più di metà della Galassia sarebbe stata assorbita da quella pozza vermiglia.
Adesso Trantor si trovava sull’orlo di una nuova trasformazione; da Impero Trantoriano stava per divenire Impero Galattico e allora quell’immensa macchia rossa avrebbe inghiottito tutte le stelle e sarebbe finalmente regnata la pace universale… la “Pax Trantorica”.
Questo voleva Abel.
Abel non era favorevole a Trantor, ma alla conclusione totale che Trantor rappresentava. Perciò la domanda: Come potrà questo aiutare la pace galattica? si trasformava naturalmente nell’altra: Come potrà questo aiutare Trantor?
Il guaio era che in tale circostanza egli si trovava a brancolare nel buio più assoluto. Per Junz la soluzione era evidentemente semplicissima: Trantor doveva difendere l’U.S.I. e punire Sark.
Certo questa sarebbe stata una gran bella cosa, purché si potesse dimostrare che Sark aveva torto. Ma in ogni caso Trantor non poteva compiere mosse avventate. Tutta la Galassia capiva che Trantor aspettava solo il momento opportuno per trasformarsi in un dominio galattico e vi era ancora la possibilità che quel poco che restava di pianeti non trantoriani si unisse per impedirlo. Perciò Trantor non doveva assolutamente arrischiare una sola mossa incauta in quello stadio finale del gioco.
Abel era stupito dalla collera ostinata del libairiano. Gli aveva domandato una volta: «Ma perché le interessa tanto la sorte di quell’individuo?»
Junz aveva aggrottato la fronte e gli aveva risposto: «Perché in fondo a tutta questa faccenda si nascondono i rapporti che legano Sark a Florina. Io intendo denunciare tali rapporti e spezzarli.»