Le sue nozioni sulla topografia della Città Alta erano molto vaghe. Sapeva però che in quel settore doveva trovarsi il Parco Cittadino. Il passo più logico sarebbe stato di chiedere informazioni, ma la cosa era inattuabile perché nessun pattugliatore aveva mai bisogno di informazioni.
Si limitò ad avviarsi nella direzione che gli indicava la sua memoria, basata sulle piante della Città Alta che aveva avuto qualche volta occasione di consultare. Fu fortunato. Quello infatti era senza possibilità di dubbio il Parco Cittadino.
Il Parco Cittadino era un appezzamento di verde artificiale che copriva un’area di cento acri circa. Persino su Sark godeva di una fama esagerata che andava da una pace bucolica a misteriose orge notturne. Su Florina coloro che ne avevano inteso vagamente parlare lo immaginavano cento volte più vasto del reale e mille volte più splendido.
Era tuttavia pur sempre un luogo gradevole. Grazie al clima mite di Florina si conservava verde per tutto l’anno. Era diviso in prati, zone boscose e grotte di pietra.
Si diresse a una scalinata incassata tra due pareti di roccia e prese a scendere nella conca circondata di piccole caverne, appositamente create per poter accogliere le coppie sorprese dalla pioggia notturna.
E a un tratto vide quel che andava cercando. Un uomo! O meglio, un Signore.
Non c’era nessun altro nella conca. Era un luogo fatto per l’attesa e per la notte. Evidentemente il Signore aspettava qualcuno. Terens si guardò intorno. Nessuno l’aveva seguito lungo le scale.
Si avvicinò al Signore il quale non lo notò, naturalmente, finché Terens non gli ebbe chiesto: «Voglia perdonarmi?»
La frase era rispettosa, ma un Signore non era abituato a farsi prendere in giro da un pattugliatore, sia pure con tutte le scuse possibili e immaginabili.
«Che diavolo ti viene in mente?» protestò.
Terens seguitò con voce più che mai rispettosa, ma non per ciò meno incalzante: «Da questa parte, Signore. Si tratta del rastrellamento che stiamo facendo nella Città per cercare quell’assassino indigeno.»
«Ma di che cosa vai cianciando?»
«Sarà questione di un momento.»
Senza farsi accorgere Terens aveva estratto la frusta neuronica. Il Signore non la vide neppure. Lo strumento emise un lieve ronzìo, e il Signore si irrigidì e cadde riverso.
Il luogo era sempre deserto. Trascinò il corpo inanimato, dallo sguardo fisso, vitreo, sino in fondo alla più vicina grotta.
Quindi lo svestì, non senza difficoltà poiché le gambe e le braccia erano già irrigidite dal “rigor mortis”. Si tolse quindi l’uniforme di pattugliatore ormai tutta sudicia di sudore e di polvere, e indossò le vesti del Signore. Per la prima volta sentì contro la propria pelle il delicato contatto di una stoffa kyrt.
Si pose infine in capo lo zucchetto. Quest’ultimo indumento era particolarmente necessario. I giovani non ne portavano più molto spesso, ma quello, fortunatamente, sì. Per Terens quello zucchetto era indispensabile, altrimenti i suoi capelli chiari lo avrebbero subito tradito. Se lo calcò giù fino alle orecchie.
Poi regolò l’inceneratore al massimo della dispersione e lo puntò sul cadavere. In capo a dieci secondi rimase solo un mucchietto di cenere.
Sempre servendosi dell’inceneratore ridusse l’uniforme del pattugliatore a un mucchio di polvere bianca. Ebbe però cura di toglierne i bottoni e la fibbia d’argento che la vampa distruggitrice aveva soltanto anneriti.
E ora doveva andarsene al più presto. Stava discendendo la gradinata quando fu incrociato da una giovane donna. Per un attimo, vinto dalla forza dell’abitudine, abbassò gli occhi. Era una Dama. Li alzò in tempo per notare che era giovane e molto bella, e che aveva fretta.
Serrò la mascella. Non lo avrebbe trovato, naturalmente. Però era in ritardo, altrimenti l’uomo non avrebbe seguitato a consultare con tanta impazienza il proprio orologio. Avrebbe forse pensato che il compagno si era stancato di aspettare e se n’era andato. Affrettò il passo.
Uscì dal Parco, e prese a camminare senza meta. Trascorse un’altra mezz’ora.
Adesso non era più un pattugliatore ma un Signore.
Si fermò a una piccola piazza al centro della quale sorgeva, in mezzo a un’aiuola, una fontana nella cui acqua era stata aggiunta una certa dose di detergente perché spumeggiasse e ribollisse con variopinta iridescenza.
Si appoggiò alla balaustra, voltando la schiena al sole calante e lentamente, a uno a uno, lasciò cadere nella fontana gli ornamenti di argento annerito. Con movimenti metodici, e sforzandosi di apparire indifferente, incominciò a frugarsi nelle tasche.
Il loro contenuto non presentava nulla di particolarmente insolito. Un mazzo di chiavi, poche monete, un documento d’identità.
Constatò che il suo nuovo nome era Alstare Deamone. Si augurò di non dovere mai usarlo. Nella Città Alta, tra uomini, donne e bambini, vi erano in tutto diecimila abitanti, perciò era più che probabile che egli incontrasse qualcuno che conosceva Deamone personalmente.
Aveva ventinove anni. Di nuovo si sentì assalire da un rigurgito di nausea al pensiero di quel che aveva lasciato nella grotta, e dovette lottare per soffocarlo. Un Signore era un Signore. Quanti floriniani ventinovenni erano stati uccisi per le loro mani o dietro loro istruzioni? E quanti floriniani ancora più giovani?
Possedeva pure un indirizzo, che però non aveva per lui alcun significato, date le sue rudimentali nozioni della topografia della Città Alta.
Proseguì nell’inventario del contenuto delle tasche. Vi era tra l’altro una licenza di pilota di panfilo. Non vi fece caso. Tutti i ricchi sarkiti possedevano dei panfili che pilotavano personalmente. Era la moda del secolo. Trovò finalmente alcune strisce di ricevute di credito sarkita. Queste sì che almeno temporaneamente avrebbero potuto essergli utili.
Si ricordò a un tratto che non aveva più mangiato dalla notte prima e si sentì affamato.
Ma subito si diede a meglio osservare la licenza di pilotaggio. Ma certo, nessuno doveva usarlo in quel momento, e quello era il suo panfilo, Portava il numero di rimessa 26, ed era ancorato al Porto 9. Ebbene…
Ma dov’era il Porto 9? Lui non ne aveva la più pallida idea.
Appoggiò la fronte contro la fresca liscia balaustra che attorniava la fontana. Che doveva fare?
Una voce lo riscosse.
«Salve! Non si sente male, vero?»
Terens alzò la testa. Era un Signore anziano.
Il Borgomastro disse: «Mi stavo riposando. Avevo deciso di fare una passeggiata, e ho perduto la nozione del tempo. Temo di essere ormai in ritardo per un certo appuntamento che avevo.»
L’altro chiese: «Ci sentiamo perduti senza una zanzara, eh?»
«Infatti» ammise Terens.
«Usi pure la mia» fu l’offerta immediata. «È parcheggiata proprio qui fuori. Può regolare i controlli e rimandarmela indietro quando non le servirà più. Posso farne benissimo a meno per un altro paio d’ore.»
Per Terens quella proposta sarebbe stata pressoché ideale. Le zanzare erano velocissime e potevano superare in velocità e in manovra qualsiasi vettura aeroterrestre della pattuglia. Purtroppo però si presentava per lui una difficoltà insormontabile: Terens infatti non era capace di guidare una zanzara.
«Di qui a Sark» disse. Conosceva quell’espressione idiomatica che tra i signori significa “grazie”, e si affrettò a usarla. «Preferisco camminare. Tanto il Porto 9 non è lontano.»
«No, non è lontano» ammise l’altro.
Questo non aiutava certo Terens. Ritentò: «Certo, preferirei trovarmici più vicino. La passeggiata sino alla via Kyrt è già di per sé piuttosto faticosa.»
«La via Kyrt? E che c’entra?»
Terens ebbe l’impressione che l’altro lo stesse guardando in modo strano. Si affrettò ad aggiungere: «Un momento! Devo essermi confuso camminando. Mi faccia un po’ pensare.» Si guardò intorno con aria vaga.