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«E tu?»

Genro rispose con un sorriso freddo, senza gioia: «Tu preoccupati di te stesso e basta. Quando si accorgeranno che sei scomparso può darsi che mi fucilino come traditore. Se tuttavia mi ritroveranno in stato di incapacità fisica a impedirti la fuga, posso sperare che si limitino a radiarmi come imbecille. Penso che quest’ultima soluzione sia preferibile, e perciò ti prego, prima di andartene, di usare su di me una frusta neuronica.»

Il Borgomastro disse: «Lo sai cosa significa?»

«Certo.» Lievi gocce di sudore gli bagnavano le tempie.

«Come puoi essere sicuro che io non ti faccia fuori, dopotutto? Lo sai che sono un ammazza-Signori.»

«Lo so» disse Genro. «Ma ammazzandomi non faresti nulla di positivo. Ti servirebbe solo a sprecare del tempo prezioso. Ho corso rischi anche peggiori. Voglio sperare che tu non ti metta in testa di agire per conto tuo. Sark non è il posto adatto per iniziative individuali. Si tratta di scegliere tra Trantor o i Signori. Ricordatelo. Se Trantor non ti avrà in capo a un’ora, cadrai nelle mani dei Signori prima di sera. Non ti posso garantire quel che ti farà Trantor, ma posso garantirti quel che ti farà Sark.»

Il porto appariva ora visibilissimo sul visischermo, ma Genro non lo guardava più. Si occupava unicamente degli strumenti, preparandosi alla manovra di atterraggio. La nave si volse lentamente nell’aria, a un miglio di altezza, e si librò a coda in giù.

Genro disse: «Prendi la frusta. Svelto. Ogni secondo è essenziale. La camera di emergenza si chiuderà alle tue spalle. Passeranno cinque minuti prima che si chiedano come mai non apro la camera centrale, altri cinque perché facciano irruzione qui dentro, e ancora altri cinque perché ti trovino. Hai quindici minuti in tutto per uscire dal porto e salire sulla macchina»

Il panfilo s’inclinò maestosamente e piano piano si coricò su un fianco.

Genro disse: «Muoviti!» Aveva l’uniforme bagnata di sudore.

Terens avvertì immediatamente l’aria frizzante dell’autunno sarkita. I giorni che aveva spesi nell’Amministrazione Civile gli tornarono bruscamente alla memoria come se non si fosse mai allontanato da quel mondo di Signori.

Solo che adesso era un fuggiasco, marcato a fuoco dal più nero dei delitti, l’omicidio di un Signore.

Cercava di soffocare nel rumore dei propri passi il battito greve del suo cuore. Si era lasciato alle spalle la nave e in essa Genro irrigidito nell’agonia della frusta.

Lo avevano veduto uscire dalla nave?

Certamente no, altrimenti a quest’ora l’inseguimento avrebbe già avuto inizio.

Si portò rapidamente una mano al berretto che aveva tuttora calcato sino alle orecchie, e il medaglioncino che vi era ora attaccato gli parve stranamente liscio, sotto il contatto delle sue dita. Genro aveva detto che gli sarebbe servito come documento di identificazione. Gli uomini di Trantor ne avrebbero veduto il luccichio nel sole. Odiava e temeva Trantor, ma sapeva che in ogni caso non poteva e non doveva assolutamente cadere in mano a Sark.

«Ehi! Laggiù!»

Terens s’irrigidì. Alzò la testa spaventato. L’uscita era ancora parecchio lontana. Se si fosse messo a correre… ma non avrebbero mai lasciato uscire un uomo di corsa.

La giovane donna era sporta dal finestrino di una macchina quale Terens non aveva mai veduta, neppure in tutti i quindici anni in cui era rimasto su Sark. Scintillava metallica in un barbaglio di gemmite translucida.

La donna disse: «Venga qui.»

Terens si avvicinò lentamente alla vettura. Genro gli aveva detto che all’uscita dal porto avrebbe trovato ad aspettarlo una macchina di Trantor. Ma come mai avevano mandato una donna per un simile incarico? Una ragazza, anzi, per essere più esatti. Una ragazza bruna, bellissima.

La sconosciuta disse: «È arrivato con la nave che ha atterrato poco fa, vero?»

Terens non rispose.

La sconosciuta si spazientì. «Andiamo, l’ho vista mentre lasciava la nave!»

Terens mormorò: «Sì, sì».

«Salga, dunque.»

Gli aveva aperto lo sportello.

«Fa parte dell’equipaggio?» gli domandò.

Lo stava mettendo alla prova, evidentemente. Terens rispose: «Sa benissimo chi sono» e alzò meccanicamente una mano a indicare il medaglione.

Silenziosamente la macchina fece marcia indietro e girò.

Al cancello Terens si ritrasse, rannicchiandosi sul morbido sedile ricoperto di kyrt, ma fu una precauzione inutile. La ragazza disse con voce imperiosa, perentoria: «Quest’uomo è con me. Io sono Samia di Fife.»

Ci vollero parecchi secondi perché quelle parole filtrassero nello stanco cervello di Terens. Quando si riebbe la macchina era già lanciata a centinaia di chilometri all’ora lungo l’autostrada speciale.

Fuori del porto uno dei due uomini che si trovavano seduti in una vettura aeroterrestre chiese seccato: «È salito su una macchina con una ragazza? Quale macchina? Quale ragazza?» Nonostante il costume sarkita il suo accento era spiccatamente quello dei mondi arturiani dell’Impero di Trantor.

Il suo compagno era sarkita, e assai competente in fatto di notiziari visitrasmessi. Non appena la macchina in questione uscì maestosamente dal cancello e andò acquistando rapidamente velocità, si alzò a metà sul sedile ed esclamò: «Ma quella è la macchina della Dama Samia. Non c’è n’è un’altra uguale in tutto Sark. Santa Galassia, che cosa facciamo?»

«Seguiamola» disse l’altro seccamente.

«Ma la Dama Samia…»

«Per me non è niente, e non dovrebbe esserlo neppure per te. Altrimenti, che cosa ci stai a fare qui?»

Il sarkita gemette: «Non riusciremo mai a raggiungere quella macchina. Non appena si accorgerà di essere seguita mollerà tutta la resistenza.»

«Per il momento va ancora abbastanza adagio» disse l’arturiano.

Dopo qualche minuto aggiunse: «Comunque una cosa è certa: non è diretta agli Interni.»

E dopo qualche altro minuto riprese: «Non è diretta nemmeno al Palazzo di Fife.»

Il sarkita osservò: «Come possiamo sapere se è l’assassino che cerchiamo, quello? Potrebbe anche essere un trucco per portarci fuori strada. Non sta affatto tentando di squagliarsela e se non volesse essere seguita non si servirebbe di una macchina come quella che chiunque riconoscerebbe a due miglia di distanza.»

«Lo so, ma Fife non avrebbe mai mandato sua figlia a trarci in inganno.»

«Può anche darsi che non sia la Dama Samia, dopotutto.»

«È quello che dovremo scoprire, amico. Sta rallentando. Accelera e fermati vicino a una curva!»

«Ho bisogno di parlarle» disse la ragazza.

Terens comprese di non essere caduto nella trappola che a tutta prima aveva immaginata. Quella doveva essere effettivamente la Signora di Fife. Doveva esserlo per forza, poiché sembrava che non le passasse nemmeno lontanamente per il cervello che qualcuno potesse intromettersi nei suoi movimenti.

Non si era mai neppure una sola volta girata indietro per vedere se la seguivano. Tre volte, invece, a Terens non era sfuggita la macchina che teneva loro dietro.

Disse: «Sono a sua disposizione.»

Samia chiese: «Era sulla nave che trasportava l’indigeno di Florina ricercato per tutti quegli omicidii?»

«L’ho già detto: sì.»

«Benissimo. Adesso, io l’ho condotta qui in modo che nessuno ci disturbi. L’indigeno è stato interrogato, durante il viaggio a Sark?»