Erano in due e li accompagnava un caposquadra dell’opificio.
I pattugliatori si mostrarono seccati e indifferenti. Uno di loro disse al caposquadra: «Be’, quanto ti ci vuole per eseguire una identificazione? Chi è quest’uomo?»
Il caposquadra scosse energicamente il capo: «Io non l’ho mai visto, Ufficiale. Non è uno di qui!»
Il pattugliatore si era rivolto a Jencus : «Non aveva qualche documento addosso?»
«Nossignore. Indosso non aveva che uno straccio che ho bruciato per impedire un possibile contagio.»
«Ma che cos’ha?»
«È senza cervello, a quel che ho capito.»
A questo punto Terens aveva preso in disparte i pattugliatori, che in quella circostanza imbarazzante si mostrarono condiscendenti. Il pattugliatore che aveva rivolto le domande ripose il proprio taccuino e disse: «Va bene, non vale la pena di stendere un rapporto per così poco. È una storia che non ci riguarda. Se ne sbarazzi come meglio crede.»
Quindi se ne erano andati.
Ma il caposquadra era rimasto. Era un uomo tutto efelidi, rosso di capelli, con due gran baffi a punta. Era un caposquadra di rigidi principi e teneva il proprio posto da cinque anni, il che significava che la responsabilità del raggiungimento della quota, per quanto riguardava l’opificio, poggiava in gran parte sulle sue spalle.
«Senta un po’» disse brusco «che cosa facciamo? La gente non fa che parlare e non lavora più.»
«Lo mandi all’ospedale della Città» disse Jencus manovrando affannosamente il proprio fazzoletto.
«Mandarlo alla Città?» Il caposquadra lo aveva guardato inorridito. «E chi pagherà le spese? Mica è uno di noi, vero?»
A questo punto era intervenuto Terens. «Stammi un po’ a sentire. Che cosa intendi fare, di preciso?»
Il caposquadra aveva risposto: «È come se fosse morto. Sarebbe un’opera di misericordia.»
«Ma non si può ammazzare una creatura che è ancora in vita.»
«Consigli lei allora quel che conviene fare.»
«Qualcuno del paese non se ne può occupare?»
«E chi si prende una briga simile? Lei, per caso?» Terens ignorò l’atteggiamento apertamente insolente. «Io ho altro da fare.»
«E nelle stesse condizioni sono tutti quanti. Non posso permettere che la gente trascuri il proprio lavoro all’opificio per occuparsi di questo disgraziato privo di cervello.»
Terens sospirò e disse senza rancore: «Stammi a sentire, Caposquadra, cerchiamo di essere ragionevoli. Se non raggiungi la quota durante il trimestre in corso posso imputare la cosa al fatto che uno dei tuoi operai si occupa di questo povero diavolo, e in tal caso parlerò io ai Signori in tua difesa. In caso contrario dirò semplicemente che non so per quale motivo tu non abbia raggiunto la quota, ammesso che questo effettivamente si verifichi.»
Il caposquadra era furibondo. Quel Borgomastro era al villaggio da un mese soltanto e già si intrometteva negli affari di chi ci abitava da tutta una vita; ma purtroppo possedeva una tessera recante il timbro dei Signori, e sarebbe stato poco prudente osteggiarlo apertamente.
Si limitò a chiedere: «Ma chi vuole che se lo prenda?» Improvvisamente un orribile sospetto lo colpì. «Io no, eh? Io non posso! Ho tre figli a carico e la moglie ammalata.»
«Non ho detto affatto che te lo debba prendere tu.»
Terens si era affacciato alla finestra. Ora che i pattugliatori se n’erano andati la folla inquieta e sussurrante si era assiepata intorno alla sua casa. Erano quasi tutti ragazzi, troppo giovani ancora per lavorare, altri invece erano contadini delle vicine fattorie. Pochi altri ancora erano operai, appena smontati dal turno.
Terens notò, ai margini della folla, quella ragazza alta. L’aveva osservata spesso nel mese che era trascorso. Era forte, capace, instancabile sul lavoro, e sotto la sua espressione malinconica si nascondeva una discreta intelligenza naturale.
Chiese: «Se lo affidassimo a quella?»
Il caposquadra si affacciò a guardare, e subito tuonò: «Maledizione! Dovrebbe essere al lavoro.»
«D’accordo» lo placò Terens «ma come si chiama?»
«Valona March.»
«È vero; adesso mi ricordo. Falla entrare.»
Da quel momento Terens si era autonominato tutore ufficioso dei due. Aveva fatto tutto il possibile per procurar loro razioni supplementari di cibo, tagliandi di vestiario extra e tutto ciò che era necessario per consentire a due adulti (di cui uno non immatricolato) di vivere delle entrate di uno solo. Si era adoperato per aiutarla a fare accettare Rik alla scuola di addestramento presso la manifattura di kyrt. Era intervenuto per impedire una punizione più grave quando Valona aveva litigato con un caporeparto. La morte del medico aveva reso inutile ogni suo eventuale tentativo di impedire che il rapporto di quest’ultimo giungesse in alto loco, però si era tenuto pronto a entrare in azione.
Era perciò naturale che Valona venisse da lui per consiglio e aiuto, e lui aspettava ora che la ragazza rispondesse alla sua domanda.
Valona esitava ancora. Infine mormorò: «Rik dice che tutti nel mondo dovranno morire.»
Terens la guardò sbalordito: «E non dice come?».
«Non lo sa. Ricorda soltanto di sapere questo da prima; da prima cioè di adesso. E dice anche di ricordare che aveva un’occupazione importante, ma io non riesco a capire di che si tratti.»
«Come te l’ha descritta?»
«Dice che an… analizzava il Nulla.» Valona lo guardò ansiosamente: «Lei sa cosa vuoi dire, Borgomastro?».
«Forse, Valona.»
«Ma, Borgomastro, come si può fare qualcosa col Nulla?»
Terens si alzò sorridendo. «Ma come, Valona, non lo sai che tutto ciò che si trova nella Galassia è pressoché Nulla?»
Nessuna luce di comprensione illuminò la faccia di Valona, ma la ragazza accettò supinamente la spiegazione: il Borgomastro era un uomo molto istruito. Con una inattesa punta d’orgoglio la ragazza ebbe la subitanea certezza che il suo Rik lo fosse ancora di più.
«Andiamo.» Terens le tese una mano. «Dov’è Rik?»
«A casa. Dorme.»
«Ti ci riconduco, dunque. Vuoi che i pattugliatori ti trovino per strada, sola?»
A quell’ora tarda il villaggio sembrava completamente svuotato di vita. Le luci lungo l’unica strada che divideva in due la zona delle baracche degli operai splendevano senza diffondere chiarore.
Valona non si era mai trattenuta fuori così tardi durante una sera feriale e aveva paura. Cercava di attutire il più possibile il suono dei propri passi, mentre tendeva l’orecchio nel terrore di udire l’approssimarsi dei pattugliatori.
Terens le disse: «Smettila di camminare in punta di piedi, Valona. Ci sono io con te.»
Nel grande silenzio la sua voce rimbombò come un colpo di tuono e Valona trasalì, quindi, obbedendo alle sue esortazioni, affrettò il passo. La capanna di Valona era al buio come le altre, quando essi vi entrarono. Terens era nato e cresciuto in una capanna identica a quella e benché in seguito fosse vissuto su Sark e occupasse attualmente una casa di tre stanze dotata di impianti sanitari, provava tuttora davanti allo squallore di quella misera abitazione un senso di vaga nostalgia. Era formata di un’unica stanza comprendente un letto, un cassettone, due seggiole, un pavimento di cemento e un gabinetto situato in un angolo.
Le installazioni di cucina erano inutili, giacché tutti pasti venivano consumati all’opificio, né serviva un bagno, poiché nello spazio dietro le capanne era sistemato tutto un complesso di bagni e docce comuni. Dato il clima mite e costante non esistevano finestre a protezione del freddo e della pioggia. Le quattro pareti erano forate da aperture schermate e le gronde sul tetto costituivano un riparo sufficiente contro le leggere pioggerelle notturne. Rik dormiva dietro un paravento.