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Terens disse: «Andiamo.»

Si mise a correre, mentre il sudore gli usciva abbondantemente da tutti i pori. Nel tumulto echeggiavano gli ordini secchi che uscivano dalle gole dei pattugliatori. Due pattugliatori si erano messi a correre nella direzione giusta. Terens non sapeva se lo avessero veduto o meno, ma questo non aveva importanza. Entrambi si scontrarono con l’uomo dalle spalle enormi che aveva appena rivolto la parola a Terens. Terens spinse Valona e Rik oltre l’angolo.

La panetteria di Khorov era riconoscibile da un’insegna semicancellata di plastica luminosa, spezzata in più punti, ma ciò che la rendeva inconfondibile era il meraviglioso odore che filtrava dall’uscio aperto. Non restava che entrarvi e così fecero.

Un vecchio alzò la testa dalla stanza interna entro la quale i tre sopraggiunti notarono la vampa, oscurata da una nuvola di farina, dei forni al radar, ma il vecchio non ebbe la possibilità di domandare loro che cosa volessero.

Terens cominciò: «Un uomo dalle spalle larghe…» Aveva aperto le braccia per meglio illustrare il concetto, quando dall’esterno presero a echeggiare grida concitate di «I pattugliatori! I pattugliatori!».

Il vecchio disse con voce rauca: «Da questa parte! Presto!»

Terens esitò: «Lì dentro?»

Il vecchio disse: «È finto.»

Prima Rik, poi Valona, e infine Terens s’infilarono nella bocca del forno. S’intese uno scatto sommesso, e la parete posteriore del forno si spostò senza rumore rimanendo liberamente sospesa a due cardini sovrastanti. I tre passarono oltre e si trovarono in una minuscola stanza, malamente illuminata.

Attesero. La ventilazione era cattiva, e l’odore di pane infornato aumentava la loro fame senza soddisfarla.

Valona cominciò: «Borgomastro…»

Lui la interruppe con un ordine sommesso ma imperioso: «Non ora, Lona, ti prego!»

S’intese un clicchettio, centuplicato dalla ristrettezza del loro nascondiglio. Terens s’irrigidì, e quasi senza rendersene conto alzò i pugni chiusi. Era lo sconosciuto che cercava di far passare nell’angusta apertura le proprie immense spalle. Guardò Terens e parve divertito.

«Andiamo, amico! Non ci metteremo certamente a fare a pugni, immagino.»

Terens si guardò le mani serrate in una stretta convulsa, e le lasciò ricadere.

Lo sconosciuto era in condizioni anche peggiori di prima. Aveva la camicia strappata e una ecchimosi fresca, rosso-violacea, che gli sfregiava uno zigomo.

L’uomo disse: «Hanno smesso di cercare. Se avete fame, qui non c’è molto, se però vi accontentate… che ne dite?»

Dopo che ebbe mangiato, Rik cominciò a sentirsi meglio. Domandò timidamente: «Le hanno fatto male, signore?»

«Un po’» rispose l’uomo dalle spalle larghe «ma non importa. Nel mio mestiere è roba di tutti i giorni.» Rise, mettendo in mostra i denti fortissimi. «Hanno dovuto ammettere che ero innocente come un agnello, ma siccome gli avevo intralciato la strada mentre stavano dando la caccia ad altri, il modo più semplice per sbarazzarsi di un indigeno che dà fastidio…» La sua mano si alzò e ricadde come se reggesse per il calcio un’arma invisibile.

Rik si ritrasse e Valona tese su di lui un braccio protettore, con gesto ansioso.

Lo sconosciuto disse: «Io sono Matt Khorov, ma tutti mi chiamano il Fornaio. E voi chi siete?»

Terens si strinse nelle spalle: «Ecco…»

Il Fornaio disse: «Capisco. Meno so meglio è. Può darsi. Potreste però fidarvi di me. Non vi ho salvato dai pattugliatori, forse?»

«Sì, e ve ne siamo grati.» Terens non riusciva tuttavia a dare alla sua voce un tono cordiale. Chiese: «Come sapevate, che cercavano proprio noi? Eravamo in tanti a scappare!»

L’altro sorrise. «Nessuno aveva la faccia che avevate voi tre.»

Terens tentò di sorridere a sua volta, ma senza riuscirvi. «Non capisco perché abbiate rischiato la vita per noi. Comunque ve ne ringraziamo.»

Il Fornaio si appoggiò alla parete. «Faccio questo tutte le volte che posso e senza alcun profitto personale. Quando i pattugliatori corrono dietro a qualcuno, io cerco sempre di aiutarlo. Odio i pattugliatori.»

Valona gemette: «E non si caccia mai nei guai?»

«Certo. Ma non crederete che mi fermi per così poco! Ho costruito il forno finto, proprio per non farmi acchiappare dai pattugliatori e per non cacciarmi in guai troppo grossi.»

Valona aveva spalancato gli occhi e nel suo sguardo c’era un’espressione mista di terrore e di meraviglia.

«E perché no?» disse il Fornaio. «Sapete quanti Signori ci sono su Florina? Diecimila. E sapete quanti pattugliatori? Ventimila al massimo. Mentre noi indigeni siamo cinquecento milioni. Se ci schierassimo tutti contro di loro…» Fece schioccare le dita.

Terens disse: «Ci metteremmo contro un muro di fucili disintegratori e di cannoni atomici, Fornaio.»

Il Fornaio replicò: «Già! Il fatto è che voi Borgomastri siete sempre vissuti troppo vicini ai Signori, e ne avete paura. E poi non volete esporvi. È una bella cosa starsene tranquilli, ma non è una bella cosa essere troppo cauti, Borgomastro. Ho l’impressione però che questa volta l’abbia fatta grossa, e ora avrà bisogno di aiuto perché sanno chi è.»

«No, non lo sanno» disse Terens.

«Avranno pure esaminato le sue carte, su nella Città Alta.»

«Chi ha detto ch’io sono stato nella Città Alta?»

«Così! Una mia deduzione, ma scommetto che è giusta.»

«Sì, le hanno guardate, ma non tanto attentamente da ricordare il mio nome.»

«Però sanno che lei è un Borgomastro. Probabilmente a quest’ora tutti i segnali di allarme di Florina saranno in agitazione. Sono convinto che la sua situazione è grave.»

«Può darsi.»

«Sa benissimo che è così. Allora, le serve aiuto?»

Avevano seguitato a parlare a voce bassissima. Rik si era accoccolato in un angolo e si era addormentato. Gli sguardi di Valona si spostavano continuamente dall’uno all’altro dei due interlocutori.

Terens scosse la testa. «No, grazie. Mi… me la caverò da solo.»

Il Fornaio scoppiò a ridere. «Mi piacerebbe sapere come. Senta, stanotte ci pensi su e chissà che alla fine non si decida a chiedermi aiuto.»

Gli occhi di Valona erano spalancati nelle tenebre. Il suo letto era una semplice coperta gettata sul pavimento, ma non vi si trovava molto peggio che negli altri letti ai quali era sempre stata abituata. Rik dormiva profondamente su un’altra coperta, nell’angolo dirimpetto. Nelle giornate di grande emozione, quando i dolori di testa di cui soffriva scomparivano, si addormentava ogni volta di un sonno profondo. Valona non riusciva a prender sonno. Sarebbe riuscita a dormire? Aveva assalito un pattugliatore!

Misteriosamente il suo ricordo tornò a suo padre e a sua madre.

Erano molto confusi nella sua mente. I pattugliatori l’avevano svegliata una notte rivolgendole delle domande che ella non riusciva ad afferrare ma alle quali aveva tentato di rispondere. Dopo di allora non aveva più riveduto i suoi genitori. Erano partiti, così le dissero, e il giorno seguente l’avevano mandata a lavorare quando i ragazzi della sua età avevano ancora due anni di tempo libero da dedicare esclusivamente ai giochi.

Perché la conversazione di quella notte le ricordava i suoi genitori?

«Valona.»

La voce le era così vicina che l’alito le mosse i capelli, e al tempo stesso così soffocata che a stento poté udirla.

Era il Borgomastro. «Non parlare» le disse. «Ascolta soltanto. Io me ne vado. La porta non è chiusa a chiave. Però ritornerò. Hai capito?»

Valona allungò una mano nelle tenebre, prese quella di lui e gliela strinse.

«E bada a Rik. Tienilo sempre vicino a te. E, Valona» seguì una lunga pausa, infine il Borgomastro riprese: «Non ti fidare troppo di quel Fornaio. Non so niente di lui.»