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La risacca era forte, un fatto né sorprendente né prevedibile su Habranha, così nessuno del gruppo poté avvicinarsi molto alla sponda, e con il sole immobile di fronte a loro era difficile osservare. Grendel — il nome dato dagli esploratori erthuma alla nana rossa di Habranha — brillava a meno di venti gradi sopra l’orizzonte. Quando l’iceberg si fosse unito al continente anulare, l’astro si sarebbe presentato a un’altezza circa doppia, questo però solo tra centinaia e centinaia di chilometri. Tutto quello che si poteva vedere facilmente al largo era che parecchia vegetazione era stata divelta dalla brusca inclinazione dell’iceberg e adesso veniva spinta verso di loro. Parte della vegetazione era già bruciata; alcune piante stavano fumando mentre rotolavano tra i frangenti, e molte di quelle ancora sott’acqua — non tutta la flora habra galleggiava — probabilmente stavano causando il ribollire di schiuma in superficie. Altre, senza dubbio, stavano aspettando che qualcosa le aiutasse a scaricare elettricità.

Gli esploratori osservarono le onde abbaglianti che avanzavano verso di loro, si sollevavano in creste e si frangevano. Una scena abbastanza consueta per tutti… ma quel che seguì era leggermente diverso. La risacca non aveva sabbia da spostare. Le onde scivolavano per centinaia di metri lungo il ghiaccio liscio in lieve pendenza, perdendo energia molto lentamente nella debole gravità di Habranha. Nonostante il fluido fosse pressoché privo di increspature, era difficile vedere se trascinasse con sé soltanto alghe marine o anche qualcos’altro. I quattro membri della squadra osservarono con estrema attenzione, ognuno con un’idea particolare a proposito di quel che sarebbe apparso.

Probabilmente si sarebbe trattato di una sfera, pensò Hugh, dato che l’ipotetico strumento doveva essere stato progettato per operare a centinaia di chilometri di profondità. Rekchellet sembrava aver accantonato quel fattore, aspettandosi a quanto pareva un congegno allo stato solido, ma l’uomo non ne era tanto sicuro.

Si sbagliavano tutti. Qualcosa che non era decisamente una pianta apparve alla fine quasi di fronte a loro — non era una coincidenza, dato che guidati dall’antenna si erano accostati il più possibile alla traiettoria della sorgente dei segnali — ma per oltre un minuto non riuscirono a scorgere che pochi dettagli mentre il moto ondoso la spingeva sempre più in prossimità della sponda.

Non era una sfera, bensì un oggetto dai contorni irregolari, e i quattro esploratori avanzarono piano con debita cautela per evitare le piante cariche. La cosa finalmente toccò la sponda e per un attimo, prima che arrivasse l’ondata successiva, rimase allo scoperto. Era ancora troppo lontana perché gli Erthumoi potessero vedere bene, ma entrambi i Crotoniti emisero dei fischi di sorpresa.

Poi fu quasi coperta dall’acqua ancora una volta e venne trascinata più vicino agli osservatori; e quando riemerse, anche gli Erthumoi non ebbero più alcun dubbio, soprattutto dal momento che la bufera di neve si era spostata di fronte al sole.

Molti particolari erano tuttora nascosti, ma non dall’acqua. Si trattava indiscutibilmente di un indigeno habra che indossava una specie di corazza o scafandro ed era attaccato mediante una corda a un contenitore cilindrico. Perfino le ali erano protette, pur essendo libere di aprirsi e muoversi. Mentre gli esploratori guardavano, l’essere si contorse, si drizzò, e cominciò a strisciare per sottrarsi ai frangenti in arrivo. Hugh e Janice — non tanto allibiti per quell’apparizione, ormai, quanto divertiti dalla probabile reazione dei Crotoniti dinanzi a un volatile subacqueo — si precipitarono ad aiutarlo, e alcuni istanti dopo l’indigeno era al sicuro, fuori dalla portata dell’oceano. Si udì una serie complessa di suoni, poi la voce di Venzeer filtrata dal traduttore.

— Sei… sei il benvenuto. Ma cosa ci fa un volatile sott’acqua?

Era esattamente quello che Hugh e sua moglie avrebbero chiesto se fossero stati in grado di parlare la lingua indigena e di trovare una formulazione inoffensiva per i Crotoniti. Erano ansiosi di sentire la risposta, ma udirono solo il borbottio incomprensibile dell’emissione radio habra trasformata in suono.

Forse i Crotoniti avrebbero tradotto, naturalmente. Le macchine erano predisposte per consentire la comunicazione nell’idioma nativo degli Erthumoi, il falgita, e nella lingua del pianeta crotonita da cui provenivano i volatili, pianeta di cui né Hugh né Janice conoscevano il nome. Una situazione potenzialmente scomoda e difficile, si resero conto d’un tratto gli umani. I Crotoniti erano su Habranha da molto più tempo di qualsiasi gruppo erthuma, e molti di loro erano in grado di capire e di parlare con gli indigeni senza traduzione. Era necessaria soltanto la conversione delle onde radio in suono normale e viceversa. Quasi sicuramente, pensò mesto Hugh, non esisteva ancora nessun sistema di traduzione tra l’habra e una qualsiasi lingua erthuma. I terricoli avevano appena scoperto quel luogo; i Crotoniti lo conoscevano da almeno parecchi decenni, e forse da parecchie generazioni — fonti diverse davano risposte diverse a tale domanda.

Lui e Janice avrebbero dovuto cercare di capire quel che potevano interpretando la parte crotonita della conversazione, augurandosi di riuscire a rimanere abbastanza vicino da afferrare tutto.

«Borbottio incomprensibile…» L’indigeno, presumibilmente.

La risposta di Venzeer: «Scariche statiche…»

Hugh si diede un calcio metaforico. La macchina non traduceva nemmeno la lingua usata dai Crotoniti con gli indigeni. Naturale. Hugh guardò la moglie, le sopracciglia inarcate visibili attraverso il tessuto trasparente della tuta. Lei alzò le spalle, un gesto quasi impercettibile. Janice non avrebbe voluto essere subdola comunque, rifletté il marito. Chiedi e ti sarà dato.

— Rek, potresti dirci cosa sta succedendo? O il tuo traduttore non potrebbe operare dalla lingua locale alla vostra e poi dalla vostra al falgita, perché noi possiamo seguire? Un indigeno vivo sott’acqua è una sorpresa anche per me… non me lo sarei mai aspettato. — Sostanzialmente vero… e un’osservazione accorta, inoltre.

I Crotoniti si scambiarono una breve occhiata. Entrambi gli Erthumoi erano abbastanza sicuri di sapere cosa stessero pensando; fu Hugh a indovinare, a conti fatti. Ne ebbe quasi la certezza quando gli altri esitarono prima di rispondere; se quella traduzione non fosse stata fattibile lo avrebbero detto subito. Probabilmente stavano domandandosi se fosse o no una buona idea permettere ai loro compagni terricoli di seguire tutta la conversazione con l’indigeno.

Uno di loro si rese conto dopo un attimo che esitando si erano traditi. Venzeer, forse; almeno, fu lui a rispondere.

— Ohhh… sì. Si può fare, credo. Abbiamo una scheda linguistica come supporto di consultazione, anche se tutti e due conosciamo bene questa lingua. Possiamo inserirla in uno dei nostri apparecchi, e non dovrebbero esserci problemi… basta rimanere a portata d’orecchio. — Cominciò ad azionare un congegno attaccato a una cinghia dell’imbracatura.

— Perché questo tipo è tutto solo, lontanissimo dall’anello, e si trovava sott’acqua, inoltre? Uno dei loro sommergibili minerari ha avuto un incidente? Io credevo non potessero estrarre minerali così vicino a Latoscuro. — Hugh venne subito a quelli che considerava i punti chiave.

— Non lo so. Noi eravamo convinti che le loro apparecchiature minerarie fossero automatiche o telecomandate. I sottomarini che abbiamo visto sono strutture aperte, specie di centine… non sembrano costruiti per resistere alla pressione sul fondo.

L’uomo annuì. — Io non ne ho visti, ma qui non ci sono praticamente metalli e la pressione sul fondo è di circa diecimila atmosfere… mi riferisco alle mie unità di misura, nel caso il traduttore non l’abbia precisato. Delle macchine automatiche che non debbano proteggere un equipaggio dalla pressione sembrerebbero la soluzione ovvia. Questo tipo, però, era sott’acqua. Spero sia disposto a dirci perché.