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— Lo spero anch’io — fece prontamente Venzeer. — Cerchiamo di scoprirlo. Pare che non ci sia nessuno dei suoi compagni nelle vicinanze. Forse… — Non riuscì a terminare la frase. Rekchellet stava già rivolgendosi di nuovo all’indigeno, e questa volta gli Erthumoi poterono seguire la conversazione.

— Il tuo sottomarino ha avuto un incidente? — Discretamente esplicito per un Crotonita, pensò Hugh. La risposta arrivò in modo piuttosto frammentario; due traduzioni consecutive comportavano per forza delle pause e degli indugi, a causa delle strutture linguistiche differenti. Perfino una sola traduzione di solito aveva un andamento un po’ irregolare.

— Non avevamo nessun sottomarino. Non è stato esattamente un incidente. Pett e io ci stavamo spostando su un iceberg in profondità, tracciando una carta delle correnti, e l’iceberg è salito verso la linea di variazione di pressione profonda-media più rapidamente del previsto. La superficie si è spaccata invece di polverizzarsi, e un frammento ha ucciso Pett, temo; non l’ho più vista né sentita. Quel che è rimasto dell’iceberg era molto meno denso. Non so se per il cambiamento di fase o la perdita di fango o entrambe le cose. Comunque, è salito velocemente, e io mi sono fatto trasportare. Per poco non sono rimasto schiacciato quando ha colpito il fondo di quest’altro iceberg. Si è sgretolato, e non c’era un solo frammento abbastanza grande che valesse la pena di seguire, così sono salito per fare rapporto.

— E come? C’è qualcuno della tua gente nelle vicinanze?

— Improbabile. Mi toglierò semplicemente la corazza, mangerò tutte le provviste che potrò — l’indigeno indicò il contenitore affusolato che aveva trainato sulla sponda — e volerò fino all’anello. Basta che arrivi là… in che punto, non ha importanza.

— Lascerai qui la tua corazza?

— Il Crotonita non cercò di nascondere la propria meraviglia, o forse sperava che il traduttore non la trasmettesse. Per Hugh e Janice era una manifestazione emotiva evidente, ma non avrebbero saputo dire se l’indigeno l’avesse percepita.

— Certamente. Non potrei mai volare con la corazza, e rimpiazzarla non è difficile. Se andate in quella direzione, verso l’interno, potreste portarla lontano dall’acqua. Sarà più probabile che la trovino e possano utilizzarla, se qualcun altro dovesse averne bisogno.

— D’accordo. — Questa volta dalla voce di Rekchellet non trasparì alcuna emozione. — Possiamo sicuramente trasportarla col nostro veicolo.

— Bene. Meglio che mi muova. Prima comunicherò i dati sulla corrente, più i nostri calcoli saranno precisi. — L’indigeno, non mostrando né il minimo stupore né la minima curiosità per gli alieni, si tolse l’indumento protettivo. Se gli osservatori erthuma avessero conosciuto quel particolare del loro mondo ancestrale, di fronte a quella scena avrebbero pensato a una libellula che stesse emergendo dalla forma di pupa, anche se il corpo dell’Habra era molto più flessibile e aveva tre paia di ali anziché due. La testa era abbastanza grande da far presumere la presenza dell’intelligenza, pur sembrando piuttosto piccola sul corpo di quattro metri. Gli altri quattro arti erano molto più grossi, per le dimensioni della creatura, di quelli di qualsiasi insetto terrestre. Terminavano in polsi nodosi che potevano fungere da piedi — piedi poco adatti a un’andatura spedita sul ghiaccio, però — ed erano dotati di una mezza dozzina di appendici flessibili retrattili per il maneggio. Una volta fuori dalla corazza, la creatura si avvicinò all’involucro oblungo, aprì un’estremità, e inserì una proboscide in qualche contenitore invisibile all’interno. Per parecchi minuti rimase immobile, presumibilmente mangiando o bevendo. Poi le ali si rassodarono e si tesero, irrigidite dal fluido pompato nelle loro vene. Infine l’Habra si girò verso i quattro alieni, sempre senza mostrare la minima sorpresa.

— C’è parecchio liquido d’immersione qui, e anche del cibo… potrebbero essere utili a qualcuno… non a voi, naturalmente. Se non vi dispiace prendere anche questa roba e lasciarla più all’interno, potrebbe servire a qualcuno lontano da casa. Grazie. — Le ali cominciarono ad agitarsi lentamente, con un movimento un poco asincrono; se fossero state collegate da una membrana, questa si sarebbe increspata come le pinne di una manta — gli Erthumoi, naturalmente, non pensarono proprio a una manta, ma a un pesce simile che viveva su Falch.

E rifletterono su quel dettaglio marginale solo per un attimo. I Crotoniti si alzarono in volo con l’indigeno e lo accompagnarono per parecchie centinaia di metri. Hugh non sapeva se preoccuparsi maggiormente per quello che avrebbero potuto fargli o per quello che avrebbero potuto dirgli. Janice si rifiutò di preoccuparsi, e sembrò giustificata; i loro compagni alati poco dopo si staccarono dall’indigeno e tornarono verso l’iceberg, mentre l’Habra scompariva in lontananza nel bagliore di Grendel.

Hugh non si stupì quando i Crotoniti si posarono accanto alla corazza subacquea abbandonata dalla creatura. In fin dei conti, lui e sua moglie si trovavano già lì; era logico voler esaminare uno scafandro che a quanto pareva poteva proteggere chi lo indossava da migliaia di atmosfere di pressione.

Il sistema di snodi era ingegnoso, ma il materiale era sconcertante. Sembrava che non avesse nulla di particolarmente resistente. Le guaine per le ali e gli arti erano addirittura flessibili. L’esame accurato di un pezzo strappato — staccatosi abbastanza facilmente da complicare il mistero — rivelò che anche le piastre corporee potevano essere piegate con facilità non solo dalle mani degli Erthumoi ma anche dalle grinfie meno forti ed efficienti dei Crotoniti. Pareva impossibile che tale indumento potesse proteggere chi lo indossava da livelli di pressione elevati; e i corpi degli Habra sembravano gracili perfino secondo gli standard crotoniti… erano grandi, certo, ma tutt’altro che robusti.

Eppure quell’individuo aveva detto — con estrema chiarezza, a quanto ricordava Hugh — che stava lavorando molto al di sotto dei circa trenta chilometri toccati dal fondo della montagna di ghiaccio su cui si trovavano i quattro esploratori. Aveva parlato di cambiamenti di fase del ghiaccio che — Hugh ne era abbastanza sicuro — dovevano implicare migliaia di atmosfere. Dunque, come si spiegava il materiale flessibile dello scafandro?

— Dovremo prendere un po’ di questa sostanza per analizzarla — disse deciso Venzeer. — A me sembra più o meno simile ai polimeri che loro usano per costruire recinzioni e ripari, ma deve avere qualcosa di diverso. Forse… un momento, qualcuno di voi ha visto uscire dell’acqua dalla tuta quando si è spogliato?

— Sì, ora che ne parli… sì, l’ho vista — ammise la donna. — Non molta, ma un po’ d’acqua c’era. Ho immaginato semplicemente che prima di giungere a riva avesse allentato una giunzione o aperto una valvola per qualche motivo, e che fosse entrata dell’acqua.

— E perché lo avrebbe fatto, te lo sei chiesta?

— Mi è sembrato che non valesse la pena di azzardare un’ipotesi, visto che le risposte possibili erano tante.

— Per esempio?

— Oh, la comodità personale, se indossava la tuta da molto tempo. La voglia di respirare aria pura. La libertà di movimento. La sete… possono bere l’acqua del loro oceano?

— No. L’ammoniaca non è un problema per loro, però c’è dell’inquinamento biologico; una quantità notevole dell’azotidrato ionico che la maggior parte della vita indigena usa per immagazzinare energia (come noi, anche se ho sentito che voi usate qualcos’altro) è libera nell’oceano, per la decomposizione del plancton, suppongo. — Venzeer fornì quelle informazioni, mentre gli Erthumoi ascoltavano pensosi. Il rapido elenco di congetture di.Tanice aveva zittito momentaneamente Rekchellet, che però non aveva dimenticato l’interrogativo essenziale alla base della discussione. Rekchellet si avvicinò allo scafandro, lo esaminò e osservò attentamente il terreno, tracciando schizzi di tanto in tanto.