Tutt’a un tratto, il comunicatore gli venne strappato di mano. — Ordine revocato, timoniere! — gracchiò Francisco, spingendo da parte il primo ufficiale. — Che succede lassù?
Il capitano ascoltò con espressione appannata mentre Ahmad ripeteva quanto aveva appena riferito. — Chi diavolo dice che puoi allun… cioè, annullare lo sbarco? — biascicò. — Gli ordini non li prendi dal secondo, Mishtuh Ahmad… li prendi da me! Adesso distruggete quel satellite spia e preparatevi al lancio della navetta!
— Capitano… — iniziò Beynes.
— E tu sta’ zitto! — sbraitò Francisco, puntando l’indice verso la faccia di Beynes. Il primo ufficiale arretrò, colpito non solo dalla rabbia di Francisco ma anche dall’odore rancido di vino del suo alito. — Non sei tu il capitano, Beynes! Sono io il capitano!
D’Lambert fece un passo avanti, incerto. — Capitano Francisco — disse diplomatico — se i Locriani sanno che siamo qui, senza dubbio verranno a indagare. Meglio non trovarsi nei paraggi…
— Ce ne saremo andati da un pezzo quando arriveranno. — Francisco agitò vacillando il braccio destro indicando chissà quale rifugio immaginario, continuando a stringere con la sinistra il comunicatore di Beynes. — Abbiamo ore di tempo prima che loro arrivino qui! Adesso distruggete quel satellite, timoniere! Procediamo con il lancio! Chiudo!
Francisco sbatté il comunicatore contro il petto di Beynes. — Non fare più il furbo con me, Beynes — ringhiò, mentre Beynes annaspava cercando di afferrare l’apparecchio. — La prossima volta che tenti un tiro del genere, è ammutinamento, e io sarò felicissimo di infilarti nella camera di equilibrio e schiacciare il pulsante di espulsione. Capito?
— Signorsì, capitano — rispose Beynes contegnoso.
— Inoltre… — Francisco ruttò e proseguì. — Inoltre, ti voglio con me nella squadra di sbarco. Voglio anche te, D’Lambert, perché mi serve… ehm… — Cercò la parola giusta nella mente annebbiata. — La tua perizia — terminò. Poi fissò Beynes in cagnesco. — E perché non mi fido a lasciarti il comando della mia nave. Capito?
Beynes non disse nulla. Anche D’Lambert rimase in silenzio. Il capitano Francisco arretrò barcollando di un paio di passi, tirando in dentro la pancia e gongolando come un bullo da bar che avesse appena costretto con le minacce un tipo più piccolo di lui a offrire da bere a tutti i presenti. — Avanti col lavoro, ragazzi — disse borioso, quindi cominciò a muoversi impettito verso la navetta da sbarco che attendeva.
Beynes sospirò lentamente e lanciò un’occhiata a D’Lambert. L’ufficiale scientifico scosse lentamente la testa. — Qualunque cosa abbiano lasciato laggiù gli ex-gi — mormorò D’Lambert — spero solo che l’abbiano messa bene in vista.
Colyns: Sta dicendo che durante questo incidente il capitano Francisco era ubriaco e si comportava in modo sconsiderato…
Beynes: Colyns, il capitano era sempre ubriaco e si comportava sempre in modo sconsiderato. Questo è uno dei motivi per cui eravamo disposti a rischiare di andare su Mecca. Il Capital Explorer stava perdendo soldi per colpa sua. Una volta siamo stati fregati in un affare con i Crotoniti perché Francisco era ubriaco quando stava trattando con loro. Voglio dire, è già abbastanza difficile concludere un affare decente con quelli quando si è perfettamente sobri, e Francisco ha iniziato le trattative dopo avere bevuto per sei ore consecutive. Ancora un paio di viaggi del genere, e saremmo falliti.
Colyns: Mi sembra che stia cercando di scaricare la responsabilità su un uomo morto.
Beynes: Perché non sono l’unico responsabile! Ho cercato di fare allontanare la nave dal sistema quando Ahmad ha scoperto la sentinella orbitale!
Colyns: Ma è stato lei a raccomandare il viaggio su Epsilon Indi II…
Beynes: Per recuperare tutto quello che avevamo perso a causa di Francisco. Eravamo quasi sul punto di dover mettere all’asta l’Explorer, insomma. Se fossimo riusciti a trovare dei manufatti ex-gi di un certo valore…
Colyns: E cosa avete trovato sul pianeta?
Beynes: Non quello che ci aspettavamo.
Lo sfolgorio implacabile del sole arancione faceva tremolare l’aria rarefatta di Mecca sulla roccia e sulla sabbia del paesaggio piatto. Il mondo era un unico grande deserto, nel medesimo tempo banale e ostile. Beynes slegò il fazzoletto che aveva al collo e se lo passò sulla faccia, asciugando di nuovo il sudore. Guardò lo straccio sudicio prima di rimetterselo attorno al collo distrattamente; non vedeva l’ora di tornare sul Capital Explorer, se non altro per fare una doccia. Epsilon Indi II era un cesso di pianeta… un cadavere col portafoglio vuoto che non aveva nulla che valesse la pena di rubare.
No: similitudine sbagliata. Era una discarica… ecco una descrizione più precisa. Gli ex-gi avevano lasciato una città completa sulla luna di quel pianeta nella nebulosa W49, una scoperta fatta dall’Achilles non molto tempo prima, che aveva rivelato alle Sei Razze l’esistenza degli extragalattici. Lì su Epsilon Indi II, però, c’era solo una fossa piena di pezzi di metallo e frammenti di vetro, rottami che nemmeno gli ex-gi potevano riciclare. A breve distanza, accanto alla navetta da sbarco del Capital Explorer, Beynes sentiva il rombo dei robot scavatori che smuovevano il terriccio in fondo alla fossa cercando qualcosa di importante. La maggior parte della squadra di sbarco era sull’orlo della buca, osservando oziosamente i robot, forse sperando ancora che le macchine scoprissero qualcosa di prezioso sotto gli strati di rifiuti.
Poco probabile, comunque. A Beynes sembrava di sentire ancora le parole di D’Lambert, dopo che l’ufficiale scientifico era uscito ansimando dalla specie di cratere accanto al punto d’atterraggio per emettere il proprio verdetto sulla scoperta. «Può anche darsi che gli extragalattici siano scesi qui una volta» aveva detto. «Ma in tal caso, l’hanno fatto solo per scaricare i loro rifiuti. Un archeologo forse potrebbe trovare qualcosa di interessante in mezzo a tutta questa robaccia, ma qui non c’è nulla con cui noi possiamo presentarci in banca. Mi spiace, Arne, ma quel vecchio ubriacone su Wolf ti ha venduto delle informazioni inutili.» Poi D’Lambert era tornato in fondo alla fossa per frugare ancora un po’ tra i rottami, nella vana speranza di potere ancora scoprire qualche oggetto sfuggito ai robot. Beynes lo aveva contattato solo dieci minuti prima, e D’Lambert aveva risposto con una filza di parolacce.
Gli ex-gi avevano lasciato dietro di sé una discarica… ma i Locriani avevano lasciato qualcosa di molto più interessante. Beynes si girò a fissare di nuovo la città situata a un paio di centinaia di metri di distanza. La parola «città» sembrava impropria per l’ammasso di alti tumuli cupoliformi che si ergevano non lontano dalla fossa. D’Lambert era stato il primo a capire cosa potessero essere quelle strutture; le aveva paragonate alle cupole di terriccio che le termiti costruivano sulla Vecchia Terra, nell’entroterra del deserto australiano. Dato che i Locriani erano, in un certo senso, insetti altamente evoluti, pareva logico attribuire a loro le cupole.
La città — villaggio, colonia, castelli di sabbia, termitai, in qualsiasi modo la si volesse chiamare — sembrava scintillare al sole; malgrado la rozzezza, sembrava possedere una strana, aspra imponenza. Beynes e D’Lambert si erano spinti fino a una ventina di metri dall’insediamento, non osando andare oltre per non lasciare impronte che sarebbe stato difficile cancellare prima della partenza della navetta. Anche da quella distanza prudenziale, avevano visto porte e finestre nelle fragili cupole, tutte delle dimensioni giuste per i Locriani. E, particolare importante, sembrava che i Locriani avessero usato del materiale della discarica ex-gi per rinforzare i muri: nelle cupole c’erano frammenti di vetro e di metallo e di leghe al carbonio, che corrispondevano ai rifiuti alieni presenti nella fossa. Probabilmente, l’unico modo di utilizzare quel mucchio di rottami. D’Lambert aveva fatto un parallelo con i manufatti erthuma che a volte venivano trovati nelle tane di creature non intelligenti; in maniera analoga, i Pellegrini Lontani avevano senza dubbio saccheggiato la discarica per costruire il loro insediamento.