A meno che i Crotoniti non avessero acquisito istantaneamente un’inclinazione per le rosepasse, mandare un ambasciatore da loro non aveva alcun senso. In più, a giudicare da quel che aveva visto del carattere dei Crotoniti, uno dì loro che facesse il diplomatico era una contraddizione in termini.
Strano quanto interessante, concluse. Lasciò che Wanwadee cuocesse ancora un po’ a fuoco lento, poi disse: — Non voglio rimandare troppo i miei affari per una cosa del genere. Mi potrai usare per i prossimi tre mesi, poi il mio tempo torna mio.
— Grazie, Harriet — rispose lui e, se si eccettuano le rughe dipinte, il cipiglio cominciò visibilmente a defluire. — Dobbiamo incontrarci con lui alle dieci al Campo di St. Elsie.
— Ci sarò.
Spense il comunic e grattò Sua Altezza dietro le orecchie. — No, non è Wanwadee Li che mi mette nelle situazioni più folli — gli disse. — Sono io che mi ci metto da sola.
Sua Altezza le comunicò, senza mezzi termini, quanto folle la considerasse. In perfetto siamese le miagolò cosa ne pensava dei modi di Wanwadee, de! suo parentado putativo, e delle sue attuali tendenze sessuali. Poi ronfò con aria di sfida e le sfregò la testa sotto il mento.
Quale risposta alla sua sfida, Harriet disse: — Bene, gli metteremo le ali ai piedi.
Quando Harriet s’arrestò al limite del Campo di St. Elsie, non c’era alcuna nave Crotonita in vista. Lei però era convinta che fossero già atterrati, che avessero aperto il portello, sbattuto giù l’ambasciatore (senza preoccuparsi della parte che arrivava prima a terra) e avessero ripreso il volo come pipistrelli in fuga dall’inferno ai quali così tanto assomigliavano.
C’era un unico posto in cui tutti s’incontravano all’astroporto, ed era la Casa del Passeggero di Sylvaine, la cosa più prossima a un bar, albergo, deposito bagagli, ufficio immigrazione e Studio del Presidente che si trovasse su RosePasse. Avanzò in quella direzione.
Capì, prima ancora che la sua carrozzella arrivasse sulla superficie coperta da un lucido parquet, che l’ambasciatore era già arrivato. Poteva sentirlo che sputava e sibilava e scaracchiava come grasso versato su una piastra rovente. Nulla e nessuno poteva lanciare a lungo insulti senza ripetersi o senza apparire prima o poi estremamente ripugnante quanto un Crotonita.
Tranne forse un gatto siamese; Harriet era quasi dispiaciuta che Sua Altezza avesse declinato (enfaticamente) di accompagnarla. Uno scontro fra i due sarebbe stato estremamente divertente.
Sylvaine, molto divertito, stava occhieggiando al di sopra di un enorme assortimento di container dall’aria insolita, bagagli stranamente impacchettati, attrezzature dall’aria stravagante. Guardò Harriet abbastanza a lungo da dedicarle un cenno di saluto, poi tornò alle sue osservazioni.
Buona cosa che lei fosse già lì. Avrebbe avuto bisogno di una mano con tutto quel bagaglio, perché la carrozzella di Harriet era stata ricavata da un container di nave. Questo era la forza di Wanwadee: lui le cose le pensava in anticipo. Era per questo che la gente che abitava RosePasse gli affibbiava la carica di El Presidente anno dopo anno.
Da un luogo imprecisato all’interno della massa dei bagagli veniva il rumore di scatole che venivano aperte, di qualcuno che ci frugava dentro, risistemava le cose, le richiudeva sbattendole rabbiosamente, assieme al flusso costante di invettive crotonite. Harriet si portò più vicina e rimase in ascolto di quei suoni noti con un sorriso stampato in faccia.
— Lumaconi — diceva la voce. — Che possano strisciare sbavando per l’eternità sulle loro facce. Che le loro bocche si riempiano di fango, e le narici di erbacce. Che la loro discendenza voli sempre più in basso, finché le loro ali strisceranno nel fango. Possano… — Le imprecazioni s’interruppero di colpo.
Harriet sapeva per esperienza diretta che non poteva aver abbandonato quel corso così presto. Doveva essersi addormentato prima di quanto Wanwadee si fosse aspettato. Quale che ne fosse la causa, sapeva cos’era un’opportunità quando ne vedeva una, e approfittò di quella breve pausa per presentarsi.
— Che possano mangiare cibo avariato e strangolarsi — disse nella stessa lingua dell’altro. — Che le loro dita si coprano di muffa, e che le loro ali imputridiscano. Che le correnti ascendenti li spiaccichino contro il Dirupo Seghettato, e quelle discendenti li conficchino nelle Paludi dei Pozzi Neri.
Non aveva perso il tocco. Con un sibilo sorpreso, il Crotonita balzò su da dietro una pila di ceste e si guardò attorno con occhi vigili.
Erano occhi di un vivace color arancio, un colore che lei non vedeva da almeno tre anni. Ma lasciò subito perdere i ricordi.
Quando si fu rassicurato che Sylvaine non ospitava nessun altro Crotonita, posò io sguardo su Harriet, e anche la maschera trasparente per filtrare l’aria non riuscì a nascondere lo sguardo di sorpresa (almeno così Harriet l’aveva sempre interpretato) su quel viso uccellesco.
Da parte sua, anche lei era sorpresa: il Crotonita non aveva ombra di ali.
Da dove stava lei si vedevano chiaramente le cicatrici sulle spalle, come se le ali fossero state rimosse chirurgicamente. Si chiese quale genere di malattia o di incidente avesse resa necessaria quell’amputazione. Le ali dovevano essere state gravemente danneggiate, altrimenti gliele avrebbero lasciate, anche se inutilizzabili, se non altro per motivi estetici. L’apertura alare rappresentava il novanta per cento dell’orgoglio di un Crotonita.
Si presentò. — Sono Harriet Kingsolver. Posso esserle utile in qualche modo?
Lui aveva ripreso la sua compostezza e, con essa, la sua arroganza Crotonita. La guardò dalle mote della carrozzella alla cima dei capelli, poi disse, in tono acido: — Può volare?
— Sì — rispose lei. Non gli pose la stessa domanda.
Di nuovo quell’espressione di stupore sul suo viso, ma questa volta c’era qualcosa di nuovo, qualcosa che Harriet non aveva mai visto prima, e che non riusciva a interpretare. Dopo un attimo, lui disse qualcosa che lei non riuscì a capire.
Allora scosse la testa, sorridendo, e disse in nevelse, che era la lingua franca di RosePasse: — Mi dispiace. Ho imparato solo a imprecare in crotonita, non a conversare.
Lui rispose in nevelse: — Lei vola… con un congegno meccanico.
Il tono diceva chiaramente che gli aeroplani non contavano. Harriet era l’unica che riusciva a capire la differenza. Annuì.
— Lumacona — disse lui. Era l’insulto-base crotonita per tutte le specie non-volatili.
— Stupidaggini — controbatté lei. — Prima impari a conoscermi e le prometto che capirà. — Poi fissò i moncherini delle ali sufficientemente a lungo per richiamare la sua attenzione sul fatto che non si era preoccupata di cercare la più ovvia risposta possibile al suo insulto. — Aspetto qualcosa che valga la mia reputazione.
E di nuovo ottenne un’espressione indecifrabile, questa volta diversa da quella precedente. Non era una sorta di ammirazione, era, come dire? neutra, perché puntò un dito unghiuto contro Sylvaine e disse: -
Quest’essere che striscia nel fango voleva ficcanasare nei miei bagagli privati. — E aggiunse in crotonita: — Che possa ficcare le dita in un buco tritacarne che gliele consumi fino alla radice.
— Sylvaine? Cosa stavi cercando?
— Se aveva con sé semi, piante… le solite cose di contrabbando.
Harriet sventolò la mano per indicare la pila degli averi del Crotonita e disse: — Ha portato qualcosa di vivo con sé, che so, animali o vegetali?
— No — disse il Crotonita. — Che il suo becco a causa della nebbia possa sbattere contro la cima di un monte e sfrangiarsi in mille schegge.
— Adesso è tutto chiaro — disse Harriet a Sylvaine. — Garantisco io per lui. Adesso, che ne dici di una birra per me e di un bicchiere di glavsa per l’ambasciatore?