— Sei sicura che Sua Altezza non sia intelligente?
— Non del tutto — disse lei con un sorriso. — Grazie, Wyss’huk. Per sciocchi che possano essere i motivi che l’hanno portata qui, sono grata a Pssstwhit per averlo fatto.
— Anch’io.
Prese Sua Altezza e lo posò sulle ginocchia di Harriet, poi s’avviò verso la sede dell’ambasciata. Ma non entrò. Sua Altezza, che era stato spostato contro ogni suo desiderio, miagolò a Wyss’huk parecchie impubblicabili e impossibili e irriferibili cose che poteva fare con se stesso e con oggetti d’uso comune rintracciabili in qualsiasi casa.
Harriet disse a Sua Altezza qual era, fra i suoi rivali notturni, quello con cui avrebbe voluto fare un ballo di mezzanotte. Il che lo fece sdraiare con viva soddisfazione sul suo grembo.
— È questo il limite della tua curiosità, Ha’rit?
— Oh no, Wyss’huk. È solo l’inizio. Domani cominceremo le lezioni su come parlare la tua lingua senza infarcirla di parolacce. Se dobbiamo essere amici, ho bisogno di sapere.
— Bene — rispose lui. — Domani cominceremo coi nomi dei venti. Perché no?
Il cielo s’era fatto grigio. Meglio così, si disse Harriet, mentre caricava l’aereo con le derrate per le persone che abitavano nell’entroterra. Aveva sempre odiato farsi i voli commerciali quando sapeva che tutti stavano volando senza di lei. Era un pensiero egoista ma ne era compiaciuta, anche se aveva perso così tanti anni di volo.
E poi, i suoi amici avevano promesso a Wyss’huk di portarlo in cerca di minerali di rosepasse «il primo giorno di brutto tempo», e lui probabilmente si sarebbe fatto qualche idea di come si viveva su RosePasse. Nel prossimo viaggio l’avrebbe portato con sé, perché dividesse con lei quell’esperienza.
Questa volta, lui aveva declinato l’offerta con grande dispiacere. Qualche problema connesso con l’ambasciata, non le aveva spiegato molto. Aveva cominciato a farla funzionare, e lei sapeva che quando avrebbe avuto tempo si sarebbe fatto sentire.
L’ultima cosa che aveva fatto era stato lanciare un fischio a Sua Altezza e portarlo a stare da Sylvaine, come era solita fare. Come al solito, Sua Altezza non era d’accordo e aveva detto a lei — e a Sylvaine — cosa ne pensava di loro due. Harriet gli aveva grattato le orecchie dicendogli che sarebbe tornata di lì a due settimane.
Aveva appena terminato il controllo pre-volo e stava caricando se stessa e la carrozzella quando una figura attraversò di corsa il campo diretta verso di lei, agitando le braccia e gridando: — Harriet, aspetta!
Era Wanwadee Li, con la fronte dipinta a grosse righe scure. S’appese al portello del volatore, senza più fiato. — Sono contento d’averti trovata. Ho bisogno di te.
— No, non è vero. Te l’ho già detto, Wanwadee. Ho del lavoro da fare.
— Ma non capisci! Sta arrivando un altro ambasciatore crotonita, e questa volta viene da un pianeta che si chiama Stiss!
Questo avrebbe dato da pensare a Wyss’huk. Scoppiò a ridere. — Ho delle derrate da consegnare. Insegna tu all’ambasciatore di Stiss a volare. — E, sempre ridendo, chiuse il portello, evitando d’un soffio di tranciargli le dita, e s’involò.
George Alec Effinger
REINVENTARE LA GUERRA
Titolo originale: The Reinvention of War
Sul poco noto pianeta Porea, su uno dei continenti dell’emisfero boreale, sorgeva una civiltà che si autochiamava Yempena. La popolazione degli Yempena era formata da ottocentomila antropoidi primitivi e un serpente.
Il serpente si chiamava Globo Nero, e lui-lei era un fuggiasco dalla giustizia naxiana. Globo Nero era giunto su Porea su una navicella d’esplorazione e aveva deciso che il posto era sufficientemente isolato da renderlo adatto come nascondiglio. Dopo di che si era dato da fare per diventare la rispettata dea serpente di quegli antropoidi semi selvaggi. Le creature indigene chiamavano il Naxiano Yersoth, ovvero dio-dea della vittoria.
I doveri di lui-lei quale dea divertivano Globo Nero, che aveva volato da un mondo all’altro della confederazione naxiana. Lui-lei aveva un’attitudine mentale che troppo spesso causava, a lui-lei, di entrare in collisione coi codici naxiani così come con gli accordi commerciali che governavano le Sei Razze. La galassia si era civilizzata nell’interesse della pace fra le varie specie, ma Globo Nero agiva solo per conseguire uno status raro in quella concordia diffusa: lui-lei era un fuorilegge.
Era l’alba, e il sole rosso arancione di Porea, che gli Yempenesi chiamavano Ksul, aveva appena raggiunto gli alti picchi dell’orizzonte settentrionale e stava cominciando a scaldarne l’aria rarefatta. Globo Nero si trovava a suo agio nel clima temperato continentale, benché lui-lei dovesse portare un apparato respiratorio assicurato al di lui-di lei corpo sinuoso. Globo Nero aveva dipinto maschera e respiratore con uno sfrenato disegno a strisce rossonere. Gli Yempeniani erano convinti che quello fosse il suo abito da combattimento.
E c’era davvero una battaglia in atto nella pianura polverosa e senza alberi. Globo Nero aveva organizzato un esercito fra la popolazione adulta di Yempena che poi aveva guidato oltre l’indifeso confine della vicina nazione di Daglawa. Non c’era mai stata una guerra fra Yempena e Daglawa, perché entrambi i paesi avevano sufficiente territorio e risorse bastevoli per soddisfare i bisogni dei loro abitanti.
Globo Nero ci aveva pensato a lungo per trovare qualcosa che potesse portare i di lui-di lei seguaci a una furia marziale. Alla fine lui-lei aveva rivelato che, prima che lui-lei benedicesse Yempena con la sua presenza, Yersoth aveva abitato a Daglawa. I brutali Daglawani avevano goduto della di lui-di lei protezione fino a quando Yersoth era stato violentato-a da Jind, il dio daglawano del mondo sotterraneo. Giurando vendetta, Yersoth era giunto in volo a Yempena, i cui primitivi abitanti erano felici di garantire con le loro la vita di lui-lei. Dopotutto, Yersoth era il dio-dea della vittoria, e quindi erano sicuri che non avrebbero perso.
Globo Nero emerse dalla navicella d’esplorazione, dove lui-lei aveva collocato il suo comando, ben protetto dalle forze yempenite. Non molto lontano da lì, i fanti stavano scaldandosi accanto ai tizzoni dei fuochi da campo mentre preparavano le loro misere razioni, e la cavalleria stava preparando le cavalcature ricoperte di un verde chitinoso.
C’erano ventiquattromila fanti e quattromila cavalieri, e ogni soldato aveva già giurato di difendere l’onore di Yersoth a prezzo della sua stessa vita. Oltre la pianura, verso est, c’era il campo dei Daglawani, composto da una miseria di quindicimila fanti e mille cavalieri, messi assieme alla meno peggio, miseramente armati e peggio addestrati. Le forze di Globo Nero avevano facilmente messo in fuga i difensori ogni volta che li avevano incontrati fino a che un Crotonita dalle ali di pipistrello si era offerto di guidare i Daglawani.
Due maschi yempeniti aspettavano all’esterno della navetta che Globo Nero si mostrasse. Uno era alto, muscoloso, indossava tunica, elmetto e gonnellino di cuoio; l’altro era parecchio più piccolo e vestiva solo una tunica blu cenciosa legata alla vita.
Il più basso s’accoccolò nella polvere e guardò in su verso l’altro. -
Generale, sta arrivando il serpente — disse. — Gli piace dormire fino a tardi. Se si fosse svegliato con l’esercito, avremmo investito i Daglawani due ore fa.
Il generale s’aggrottò. — Se tu non fossi il suo cucciolo, Daocan, saresti già stato scuoiato vivo per aver parlato così della dea.
Daocan sorrise, mettendo in mostra i grossi denti storti. — E invece sono il suo cocchino. Il che significa che posso dire quel che penso, e che nemmeno mi debbo preoccupare delle lance e delle frecce dei Daglawani.
— Ti saluto, generale Xinseus — disse Globo Nero attraverso una malconcia apparecchiatura simultraducente di origine erthumiana. L’apparecchio traduceva le parole di lui-lei nel linguaggio rozzo e gutturale degli Yempeniti, pur mantenendo sempre una traccia delle sibilanti naxiane.