Kristan mugugnò qualcosa e si girò sul fianco, voltandole le spalle. La pioggia ora cadeva più forte. La donna rimase sveglia per un po’ in preda a collera, paura e disperazione, finché non cadde in un sonno agitato.
Laurice aveva regolato il suo cervello perché la svegliasse di buonora col primo chiarore. A quelle latitudini e in quel periodo dell’anno le notti erano brevi. Quando emerse dal torpore, sussultò e si rizzò a sedere. Kristan aveva già gli occhi aperti. Occhi che si dilatarono, in segno d’apprezzamento, intuì Laurice, ma poi l’uomo passò il braccio su di essi prima che lei potesse incrociare le sue braccia sul seno. — Vuole vestirsi prima lei o lo faccio io? — mormorò Kristan. Una risata le sfuggì spontanea a quella domanda e la svegliò completamente.
La pioggia era cessata da un paio d’ore, alleviando i suoi peggiori timori. Quando uscì dalla tenda vide che la nebbia fumava sopra il suolo e tra gli alberi. Il freddo non apparteneva all’immaginario popolare di Venafer. Un mondo intero, un intero assortimento di miracoli quali non ne esistevano nell’universo… Come stava Copperhue? Si affrettò a controllare le ultime tracce che aveva rilevato la sera prima.
— Io preparo la colazione — si offerse Kristan alle sue spalle. Laurice annuì distrattamente, con la mente concentrata sul sottobosco, le foglie morte, il fango. Non era facile seguire ancora le tracce, la pioggia aveva cancellato quasi tutto. Si accorse vagamente che Kristan stava raccogliendo legna secca e usava l’accendino per accendere un fuoco, preparando una griglia di rametti verdi su cui scaldare il cibo dei contenitori. Era chiaro che doveva possedere certe capacità di sopravvivenza.
Quando la colazione fu pronta le portò una porzione, tenendone una per sé. Laurice, che stava acquattata sui calcagni, lo guardò dal basso in alto. Neanche lui aveva l’aria di aver dormito bene, ma, se era in grado di sorridere, l’avrebbe fatto anche lei. — Tenga. — Gli porse un ramo carico di bacche scarlatte che aveva tagliato da un cespuglio incontrato per caso. — Rossoline per dolcificante.
— Ne ha già mangiate? — esclamò lui.
— Non ancora. Volevo dividerle. Perché, qualcosa che non va?
— Fiuuu! Quelle non sono vere rossoline, ma una specie di montagna, strettamente imparentata, per noi velenosa. A contraddistinguerla sono quei puntolini gialli. L’assicuro che sarebbe stata molto male.
— Grazie. — Accidenti sei davvero necessario, pensò. E stai cercando di nuovo di essere cordiale. E penso anche che ci stai riuscendo… e perché accidenti lo fai, visto che la tua collera è ben giustificata? Laurice prese il secondo contenitore, lo posò per terra e ne spazzò il contenuto col cucchiaio impugnato con la destra, mentre con la sinistra rivoltava i detriti per terra.
— Riesce ancora a trovare qualche traccia? — chiese incuriosito l’uomo.
— Sì. Le tracce in terra non vengono tutte lavate via dalla pioggia. Molte raccolgono acqua prima che i detriti comincino a riempirle e per un po’ sono ancora più visibili. Le foglie vengono spinte dal vento su altre tracce e le proteggono. I rametti piegati o spezzati non spariscono in una notte. Il problema si fa solo più complicato. La pista presenta molte interruzioni. Ma in ogni caso riesco a ricavarne la direzione generale. Quando si sarà sollevata questa nebbia del cavolo avrò indizi migliori. Vede, Copperhue non si muoverebbe puramente a caso. Nessun animale lo fa. Sia che fosse ancora molto cosciente o anche solo un poco, il suo corpo tenderebbe a seguire il percorso meno faticoso. Così se ci guardiamo attorno e studiamo l’ambiente… ah! — Una leggera brezza cominciò a lacerare la coltre grigia. Gli alberi sgocciolanti ingemmarono i cespugli e apparvero sassi lucenti di pioggia.
Dopo avere trangugiato le razioni, ingollato un po’ di latte ed essersi separati per esigenze personali, i cacciatori ripresero il cammino. Laurice stava in testa, procedeva lentamente, spesso fermandosi per guardarsi attorno o per studiare con gli occhi e le mani il terreno, sempre animata da una sicurezza che le procurava un brivido di eccitazione. Risalirono fino in cima al pendio, e sulla cresta esaminarono l’immenso spazio aperto.
L’aria si era schiarita anche se rimaneva opaca e il cielo era informe e incolore, fatta eccezione dove il sole invisibile lo ravviva leggermente di colore, basso sui contrafforti orientali. Il terreno era inclinato verso il basso, cosparso di cespugli e alberi nani ben distanziati, oppure nudo e rossastro, fino ad arrivare a uno stretto cornicione. Sotto il cornicione una scarpata di detriti scendeva a profondità invisibili. L’estremità opposta del canyon sorgeva a circa un chilometro di distanza. La gola procedeva a zig zag in direzione sud. Una barriera tra una lontana pianura e montagne altrettanto lontane.
— Guardi! — esclamò Laurice. — Qui la pista è chiara! — La pioggia aveva riempito il leggero incavo a ogni zig zag sempre più profondo. Non era la normale traccia lasciata da un Naxiano, sinuosa come le impronte di un Erthuma barcollante al limite della resistenza, e confermava l’ipotesi di Laurice.
Kristan le afferrò il braccio. — Calma — le disse. — Ricordi che suolo e che rocce abbiamo da queste parti. Nel migliore dei casi potrebbe perdere l’appoggio, nel peggiore provocare una piccola valanga.
— A Copperhue non è successo. — Tuttavia Laurice posò gli scarponi con grande prudenza, uno alla volta, mentre scendeva.
Il lungo corpo rossastro giaceva avvolto in spire in un ammasso di cespugli. Laurice si lasciò cadere in ginocchio, schiantando rami, per allacciare con le braccia quel tronco di muscoli. — Copperhue, Copperhue, come stai, amico mio, sono qui, come stai?
Con la guancia appoggiata alla sua pelle, Laurice non avvertì l’usuale calore, ma un debole e incessante brivido. Il Naxiano si mosse appena. Occhi vitrei si volsero verso di lei e s’abbassarono di nuovo. Alle sue orecchie arrivò un sibilo appena percettibile.
Laurice si rizzò in piedi. — Ipotermia — sentì che diceva la sua voce e il suono le si ripercosse nel cranio. — Estrema. Fatale, credo, se non provvediamo immediatamente.
— Niente vestiti? — chiese Kristan incredulo. Doveva essere rimasto scosso a quella vista.
— I Naxiani ne indossano raramente — rispose in fretta la donna. — Non sono pratici quando ci si muove sul ventre. E non sono rettili. Neanche mammiferi, ma sono animali a sangue caldo con un termostato più efficiente del nostro. Il fattore di raffreddamento del vento durato tutta notte, però, ha avuto il sopravvento. Io o lei saremmo morti. Lui sta andando.
— Lo so, so tutte queste cose. Ma…
— Qui non abbiamo un’unità termica e neanche le sue fantastiche attrezzature. Non c’è che una semplice terapia. Svelto! Apra il sacco a pelo. Lo apra completamente, allargandolo. — Laurice si liberò del proprio sacco, lo lasciò cadere e si acquattò per sciogliere i lacci che tenevano arrotolato il proprio sacco.
Lui l’imitò mentre le chiedeva:
— Che ha in mente di fare?
— Riscaldarlo, naturalmente. Metterlo tra i nostri sacchi e i nostri corpi. — Si guardò attorno, vide un punto che non era del tutto in piano, ma neanche così inclinato da farli rischiare di rotolare in basso e vi portò il proprio sacco. Poi ritornò indietro e disse:
— Per trasportarlo dovremmo fare in due. I Naxiani sono più massicci di quel che si creda.
Kristan ebbe la forza di essere delicato mentre trasportava la forma inconscia, facendosi ricadere la parte più ampia sulle spalle. Laurice lo sorresse per la testa.
Ansimando per lo sforzo trasportarono Copperhue sul sacco steso per terra. Il peso era passivo. Kristan prese il proprio sacco a pelo e lo mise sopra la forma del Naxiano. — E adesso? — chiese.
— Via i vestiti — ordinò Laurice. Lui rimase a bocca aperta. — Si spogli, ho detto! Al diavolo la modestia! — E si strappò gli indumenti di dosso.