— Molti tra la mia gente considerano inevitabile questa prospettiva — continuò Copperhue. — Nelle attuali circostanze considererebbero gli industriali dei liberatori. Perché senza di loro, che altro ci sarebbe? Noi rimarremmo confinati al nostro territorio originario, per riprodurci in povertà o per cedere la libertà e la sacralità della vita familiare a favore della dittatura… sterilizzazione obbligatoria e infanticidio. Ma nessuna delle due soluzioni sarebbe stabile. In ogni caso ci sarebbero disordini, sovversione, rivoluzione e alla fine la guerra.
— Nello stesso tempo — intervenne Laurice — l’approccio industriale presenta troppe incognite. Lei aveva ragione quando diceva che non è possibile predirne gli effetti. I nostri modelli computerizzati sono inadeguati.
— Gli imprenditori stanno cercando di raffinarli — ammise Copperhue. — Ma gran parte della leadership di New Halla ha seri dubbi. Può un qualsiasi modello di un intero mondo essere completo? Il caos si annida proprio nelle equazioni. Per quanta cura poniamo nei nostri preparativi, correremmo il rischio di ritrovarci fra mille anni, o anche meno, con un pianeta inabitabile e non più recuperabile. E allora dove potremmo andare?
Kristan spostò lo sguardo da Copperhue a Laurice come per chiedere soccorso. — Come mai non ne ho mai sentito parlare? — chiese.
— Se n’è discusso, anche in modo vivace, fino al limite del litigio — rispose Laurice — ma non ufficialmente o ad alto livello. Dopo tutto la colonia è nuova, ancora piccola e poco importante per chiunque tranne che per se stessa, se non in via potenziale. E voi, lei e i suoi colleghi, siete stati troppo impegnati col vostro lavoro per seguire dibattiti che si svolgono soprattutto in una lingua e in una società aliene.
Un pensiero gli fece corrugare la fronte. — In effetti quel che ha detto non è così stupefacente — mormorò. — Ho sentito gli stessi concetti discussi abbastanza a fondo anche qui tra noi a Forholt. Il guaio è che le uniche scelte sembrano essere quelle da lei accennate. O New Halla diventerà una specie di grande campo di concentramento, o Venafer diventerà un guscio coperto di macchine, o finirà tutto in un disastro. — Raddrizzò la schiena. — C’è forse un’altra possibilità? Qual è il suo segreto? — Tornò a riadagiarsi sui cuscini.
— Questa — rispose Laurice accostandosi a lui. — È un progetto a cui stiamo lavorando, badi bene, una speranza, un sogno. Magari si dimostrerà irrealizzabile. Fra cinque o dieci anni dovremmo saperne abbastanza da rendere pubblica la cosa. Come ho detto, se l’opposizione dovesse subodorare qualcosa troppo presto, potranno rovinare tutto, classificandoci come ostruzionisti del progresso che devono essere spazzati via prima da provocare veri guai. Ma una volta annunciato il progetto, supportato da solide prove scientifiche che vale la pena di indagare più a fondo, dovranno frenarsi. Li costringerà la pressione sociale. — Laurice fece una pausa. — A me piace pensare che saranno le loro stesse coscienze a imporglielo.
— Noi Naxiani non abbiamo avvertito in quelli che abbiamo conosciuto una malvagità superiore a quella che è inevitabile tra creature mortali — osservò Copperhue.
— L’idea è questa — disse Laurice a Kristan che ascoltava attento. — I coloni nel corso del tempo finiranno col colonizzare tutto Venafer, ma vivendo nelle foreste, con le foreste.
— Come cacciatori, vuol dire? — chiese Kristan sbalordito.
— No, no. Per la maggioranza no. Non possiamo costringerli a tornare all’età della pietra, né lo faremmo se anche potessimo. Avranno tutto quel che esige una vita da esseri civilizzati: alfabetizzazione, medicine, trasporti, comunicazioni, macchine per i lavori pesanti. Ma perché non potrebbero averlo dalla natura? Case, non i rozzi ripari che impiegano le nostre spedizioni, vere case, ma fatte di legname che viene ripiantato, o magari da alberi che vengano tenuti in vita. Cibo, fibre, prodotti chimici, non ottenuti tramite l’agricoltura o le fabbriche ma dalla coltivazione della vegetazione della vita selvatica. E guadagnare coi raccolti ottenuti dalla foresta, da vendersi su Ather in modo da poter importare quei manufatti di cui hanno bisogno…
— Anche se ritengo — aggiunse Copperhue pensieroso — che a mano a mano che si svilupperà un simile tipo di vita, si troveranno nuove strade, nuove direzioni e nuove esigenze, fin quando non saremo diventati veramente figli del nostro mondo. È un ideale che ben si accorda con la Vecchia Verità.
— Naturalmente non sarà cosa semplice — disse Laurice. — Per niente. Nessuno di noi è in grado di prevedere anche solo un centesimo dei problemi, delle ramificazioni che il futuro potrebbe portarci. Stiamo solo cercando di imparare abbastanza su questo pianeta per vedere se il progetto sarà possibile. Noi riteniamo che la risposta sarà affermativa.
Kristan guardò davanti a sé con lo sguardo perso nel futuro. — Le foreste addomesticate — disse piano. — Non più un mondo selvaggio:
— Ma pur sempre Venafer — rispose Laurice. — E crede forse che se tutti lasciassero questo mondo e non tornassero mai più, Venafer rimarrebbe sempre inalterato?
— No — convenne Kristan. — Non c’è nulla che duri in eterno.
— Noi creeremmo qualcosa di assolutamente nuovo — disse Laurice. — Impossibile dire che forma prenderà questo mondo. Ma direi che l’aggettivo «addomesticate» è la parola sbagliata. Sarebbe meglio dire «in evoluzione».
Lentamente, Kristan fece un cenno d’assenso.
— Io farò da consulente per diversi anni — terminò la donna. — Poi tornerò al profondo spazio. Ma lei, se lei rimane e se deciderà di dare il suo contributo, dovrebbe avere davanti alcuni secoli veramente interessanti. Grandi cambiamenti, gran divertimento.
Ancora una volta Kristan rimase in silenzio, fin quando disse: — Devo pensarci sopra. E pensarci molto. — Il tono di voce che si indeboliva fecero capire a Laurice e a Copperhue che era ora di andarsene e lasciarlo riposare.
La donna sorrise. — Naturalmente.
Kristan la guardò. — Mi aiuterà a pensare? — le chiese. — Potremo incontrarci ancora?
— Provi a impedirmelo — rispose Laurice e lo lasciò con quella comune promessa.
FINE