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Io sono Tissa, Capitano della Guardia. Ho percorso cinquanta leghe per vedere le creature dagli occhi di daina, Ma loro non mi hanno parlato. È bontà questa?
Che voi possiate rimanere qui per mille anni, come la lepre che il Re degli Dèi ha dipinto sulla Luna. Io sono il sacerdote Mahinda del vihara di Tuparama.

Quella speranza era stata in parte esaudita, in parte no. Le signore della montagna erano lì da un periodo di tempo doppio di quello immaginato dal sacerdote, erano sopravvissute sino a un'epoca al di là dei suoi sogni più sfrenati. Ma come si erano ridotte in poche! Alcune iscrizioni parlavano di "cinquecento vergini dalla pelle dorata". Anche tenuto conto di considerevoli licenze poetiche, era chiaro che nemmeno un decimo degli affreschi originali era sfuggito alla furia del tempo o alla malevolenza dell'uomo. Ma le venti sopravvissute erano in salvo per sempre: la loro bellezza era riprodotta in innumerevoli pellicole e nastri e cristalli.

La loro fama aveva superato quella di uno scriba orgoglioso, che aveva ritenuto del tutto superfluo specificare il proprio nome:

Ho ordinato che la via fosse sgombrata, cosicché i pellegrini possano vedere le meravigliose vergini sul fianco della montagna. Io sono il Re.

Nel corso degli anni, Rajasinghe (che portava un nome regale, e che senza dubbio ospitava molti geni regali) aveva pensato spesso a quelle parole: dimostravano in modo perfetto la natura effimera del potere, e la futilità dell'ambizione. "Io sono il Re." Ah, ma "quale" re? Il monarca che aveva calcato quel lastricato di granito quando era ancora quasi nuovo, milleottocento anni prima, era probabilmente un uomo capace e intelligente; ma non era riuscito a capire che un giorno anche lui sarebbe sprofondato nell'anonimato totale, come il più umile dei suoi sudditi. Ormai era del tutto impossibile identificarlo. Almeno una dozzina di re potevano aver scritto quelle frasi orgogliose: alcuni avevano regnato per anni, altri solo per settimane, e pochissimi erano morti tranquillamente nel loro letto. Nessuno avrebbe mai saputo se il re che aveva ritenuto superfluo firmarsi era Mahatissa II, o Bhatikabhaya, o Vijayakumara III, o Gajabahukagamani, o Candamukhasiva, o Moggallana I, o Kittisena, o Sirisamghabodhi… o qualche altro monarca che la lunga e complessa storia di Taprobane non registrava nemmeno.

L'inserviente addetto al piccolo ascensore rimase sorpreso davanti a quell'illustre turista, e salutò Rajasinghe con deferenza. Mentre la cabina lo trasportava quindici metri più in alto, lui ricordò i tempi in cui dalla scalinata a spirale osservava con disprezzo l'ascensore. Adesso erano Dravindra e Jaya, nella spensierata esuberanza della gioventù, a salire per quella scalinata.

L'ascensore si fermò e lui scese sulla piccola piattaforma d'acciaio, costruita in fuori rispetto alla parete della montagna. Sotto e dietro di lui si stendevano un centinaio di metri di spazio vuoto, ma la robusta rete di fili metallici assicurava tutta la protezione necessaria. Nemmeno il suicida più deciso avrebbe potuto sfuggire alla gabbia, abbastanza grande da contenere dodici persone, che pendeva dalla sporgenza rocciosa a forma di onda marina.

Lì, in quel rientro creato dal destino, dove la parete formava un'insenatura modesta che proteggeva gli affreschi dagli elementi, vivevano le creature superstiti della corte celeste del Re. Rajasinghe le salutò in silenzio, poi fu ben lieto di accomodarsi sulla sedia che gli offrì la guardia ufficiale.

— Vorrei essere lasciato in pace per dieci minuti — disse piano. — Jaya, Dravindra, vedete se riuscite a portare via i turisti.

I due amici gli lanciarono un'occhiata dubbiosa; e anche la guardia, che non avrebbe mai dovuto abbandonare gli affreschi. Ma, come sempre, l'ambasciatore Rajasinghe arrivò allo scopo, e senza nemmeno dover alzare la voce.

— Ayu bowan — salutò le figure, quando fu finalmente solo. — Mi duole di avervi trascurato per tanto tempo.

Rimase cortesemente in attesa d'una risposta, ma loro non gli prestarono più attenzione di quanta ne avessero riservata ad altri ammiratori negli ultimi venti secoli. Rajasinghe non si lasciò scoraggiare; era abituato alla loro indifferenza. Non faceva che aumentare il loro fascino.

— Ho un problema, mie care — proseguì. — Voi avete visto giungere e ripartire tutti gli invasori di Taprobane sin dal tempo di Kalidas. Avete visto la giungla avanzare come la marea attorno a Yakkagala, e poi ritrarsi davanti alle scuri e agli aratri. Ma in tutti questi anni non è mutato niente di sostanziale. La Natura e la Storia sono state gentili con Taprobane, non l'hanno disturbata…

"Ora può darsi che i secoli di pace stiano per finire. La nostra terra potrebbe diventare il centro del mondo, di molti mondi. La grande montagna a sud che voi osservate da tanto tempo potrebbe essere la chiave dell'universo. Se così è, la Taprobane che conoscevamo e amavamo non esisterà più.

"Forse io non posso fare molto… Però ho un certo potere, e posso aiutare o ostacolare. Ho ancora molti amici. Se volessi, potrei ritardare questo sogno (oppure è un incubo?) almeno fino al giorno della mia morte. Devo farlo? Oppure devo aiutare quest'uomo, a prescindere dai suoi veri motivi?"

Si girò verso la sua favorita, l'unica che non allontanava gli occhi quando la guardava. Tutte le altre vergini fissavano lontano, oppure scrutavano i fiori che reggevano in mano; ma la donna che lui aveva amato fin da giovane sembrava, da un certo angolo, raccogliere il suo sguardo.

— Ah, Karuna! Non è giusto che io ti faccia domande del genere. Cosa puoi saperne tu dei veri mondi oltre il cielo, o del hisogno che gli uomini provano di raggiungerli? Anche se un tempo tu sei stata una dea, il paradiso di Kalidas era solo un'illusione. Comunque tu vedi strani futuri che io non dividerò con te. Ci conosciamo da molto tempo, stando ai miei calcoli, se non ai tuoi. Finché mi sarà possibile ti guarderò dalla villa, ma non penso che potremo incontrarci ancora. Addio… E grazie a voi tutte, magnifiche vergini, per il piacere che mi avete regalato negli anni. Porgete i miei saluti a coloro che verranno dopo di me.

Eppure, mentre scendeva per le scale sdegnando l'ascensore, Rajasinghe non si sentiva affatto in vena d'addii. Anzi, gli sembrava di essersi scrollato di dosso qualche anno (e, dopo tutto, settantadue non erano poi troppi). Dravindra e Jaya, a giudicare dalla felicità dipinta sulle loro facce, dovevano essersi accorti dell'ardore giovanile dei suoi passi.

Forse negli ultimi tempi la vita si era fatta un po' monotona. Forse sia lui che Taprobane avevano bisogno d'una boccata d'aria fresca per spazzare via le ragnatele, proprio come i monsoni portavano nuova vita dopo tanti mesi di cieli torbidi, immobili.