Con estrema cura, visto che tante vite dipendevano da quello che avrebbe fatto, studiò la sequenza di eventi. Doveva controllare la tuta, depressurizzare la capsula, e aprire il portello che, per fortuna, era a portata di mano. Poi doveva slacciare la cintura di sicurezza, mettersi in ginocchio (se ci riusciva!) e afferrare quel dado. Tutto dipendeva da quanto era stretto. Sul Ragno non c'erano utensili di nessun tipo, ma Morgan era pronto a misurare le proprie dita, anche chiuse dai guanti, contro la resistenza del dado.
Stava per trasmettere a Terra i suoi piani, nel caso che qualcuno individuasse un errore fatale, quando si accorse di una sensazione sgradevole al basso ventre. Poteva facilmente sopportarla ancora per molto tempo, se fosse stato necessario, ma era inutile correre rischi. Se usava le tubature igieniche della capsula, non doveva ricorrere allo scomodo meccanismo incorporato nella tuta…
Quando si fu liberato schiacciò il pulsante di SCARICO URINE, e rimase sorpreso da una piccola esplosione alla base della capsula. Stupefatto, vide spuntare quasi subito una nube di stelle scintillanti, come se fosse stata creata una galassia in miniatura. Morgan ebbe l'impressione che, per una frazione di secondo, rimanesse immobile all'esterno della capsula; poi cominciò a cadere verso il basso, con la stessa velocità di una pietra scagliata sulla Terra. Dopo pochi secondi quella galassia microscopica si trasformò in un punto minuscolo, e scomparve.
Niente avrebbe potuto ricordargli con maggior efficacia che era ancora prigioniero del campo gravitazionale terrestre. Ricordò che, nei primi giorni del volo orbitale, gli astronauti si sentivano stupefatti e poi divertiti dall'alone di cristalli ghiacciati che li accompagnava attorno al pianeta. Qualcuno aveva anche inventato, per scherzo, la "Costellazione Urina". Ma lì le cose erano diverse: tutto quello che usciva dal Ragno, per quanto fragile, sarebbe andato a cozzare con l'atmosfera. Non doveva mai dimenticare che, nonostante l'altezza raggiunta, non era un astronauta, libero da ogni peso e costrizione. Era solo un uomo che si trovava in un edificio alto quattrocento chilometri, e che si preparava ad aprire la finestra.
51
Sulla veranda
Per quanto sulla cima facesse freddo, e le condizioni atmosferiche fossero tutt'altro che confortevoli, la folla continuava ad aumentare. C'era qualcosa di ipnotico in quella stella minuscola, brillante, immobile allo zenit, su cui in quel momento erano puntati i pensieri del mondo intero, nonché il raggio laser della Stazione Kinte. Arrivando, tutti gli spettatori si dirigevano al nastro nord e lo toccavano con qualcosa a mezza strada fra la vergogna e l'impudenza, come per dire: "Lo so che è stupido, ma mi sembra di essere più vicino a Morgan". Poi si raccoglievano attorno alla macchinetta del caffè e ascoltavano i comunicati diramati dagli altoparlanti. Niente di nuovo alla Torre: i sette naufraghi dormivano, o tentavano di dormire, per risparmiare ossigeno. Per il momento Morgan non era ancora in ritardo, per cui nessuno li aveva informati dell'incidente; ma entro un'ora avrebbero chiamato la Stazione di Mezzo per sapere cos'era successo.
Maxine Duval era giunta a Sri Kanda appena dieci minuti dopo che Morgan era partito. Un tempo, uno sbaglio del genere l'avrebbe mandata su tutte le furie; ora si limitò a scrollare le spalle e a tranquillizzarsi con l'idea che sarebbe stata la prima a impadronirsi dell'ingegnere, non appena tornava. Kingsley non le aveva permesso di parlare con Morgan, e lei aveva accettato persino quell'ordine. Sì, stava proprio invecchiando…
Durante gli ultimi minuti, le sole parole uscite dalla capsula erano una serie di "A posto": Morgan stava eseguendo il controllo della tuta con l'aiuto di un esperto della Stazione di Mezzo. Ora il controllo era terminato; tutti attendevano, pieni di tensione, la cruciale mossa successiva.
— Faccio uscire l'aria — disse Morgan. La sua voce, adesso che aveva chiuso il visore dell'elmetto, aveva qualche eco. — Pressione nella capsula zero. Nessun problema di respirazione. — Una pausa di trenta secondi; poi: — Apro il portello frontale. Ci siamo. Adesso slaccio la cintura del sedile.
Gli spettatori, inconsciamente, si agitarono e mormorarono. Con l'immaginazione ognuno di loro si trovava lassù, sulla capsula, davanti al vuoto che si era improvvisamente spalancato.
— Fibbia a sganciamento veloce slacciata. Mi stiro le gambe. Non c'è molto spazio per stare in piedi…
"Sto provando la tuta. È flessibilissima. Adesso esco sulla veranda… Non preoccupatevi!… Ho arrotolato al braccio sinistro la cintura del sedile…
"Puà! Un lavoraccio, così chino. Comunque riesco a vedere quel dado ad aletta, sotto la griglia. Adesso sto cercando di arrivarci…
"Sono in ginocchio… Non è molto comodo… L'ho preso! Ora vediamo se gira…"
Le persone in ascolto si fecero tese, silenziose; poi, all'unisono, si rilassarono con sospiri di sollievo praticamente simultanei.
— Non c'è problema! Riesco a girarlo con la massima facilità. Ha già fatto due giri… Si staccherà da un momento all'altro… Ancora un attimo… Lo sento che cede… ATTENZIONE LAGGIÙ IN BASSO!
Ci fu uno scoppio d'applausi e urla di gioia. Qualcuno, scimmiottando il terrore, si portò le mani alla testa fingendo di coprirsela. Una o due persone, che non avevano capito che il dado avrebbe impiegato cinque minuti a cadere e sarebbe precipitato dieci chilometri a est, erano allarmate sul serio.
Solo Warren Kingsley non si unì alla gioia generale. — Non cantiamo vittoria troppo presto — disse a Maxine. — Non è ancora finita.
Passarono i secondi… Un minuto… Due minuti…
— Inutile — disse finalmente Morgan, con una voce piena di rabbia e frustrazione. — Non riesco a muovere la cinghia. Il peso della batteria la tiene schiacciata sulle filettature. Quei colpi di freno devono averla impigliata nel bullone.
— Torna indietro alla massima velocità — disse Kingsley. — È quasi pronto un nuovo accumulatore, e in meno di un'ora riusciamo a farti ripartire. Per cui riusciremo a raggiungere la Torre in… oh, diciamo sei ore. Salvo altri incidenti, naturalmente.
Appunto, pensò Morgan; e non avrebbe accettato di ripartire col Ragno senza un controllo millimetrico dei freni, sottoposti a sforzi eccessivi. Non si sarebbe fidato neppure della propria resistenza a un secondo viaggio: sentiva già il peso delle ultime ore, e presto la fatica avrebbe rallentato i ritmi del suo corpo e della mente, proprio quando avrebbero dovuto trovarsi al massimo dell'efficienza.
Adesso era di nuovo sul sedile, però la capsula era ancora aperta sullo spazio, e non aveva riallacciato la cintura di sicurezza. Quel gesto avrebbe significato ammettere la sconfitta; il che per Morgan non era mai stato facile.
Il bagliore immobile del laser della Stazione Kinte, che giungeva da un punto quasi direttamente sopra di lui, lo trafiggeva col suo candore implacabile. Cercò di concentrare la mente sul problema con la stessa precisione con cui quel raggio era concentrato su di lui.
Gli serviva solo un utensile di metallo, un'accetta o una cesoia, per tagliare la cinghia che bloccava la batteria. Maledisse ancora una volta il fatto che sul Ragno non ci fosse una cassetta di attrezzi; comunque sarebbe stato difficile che contenesse quello che gli serviva.
Nella batteria del Ragno erano imprigionati megawattore di energia; non poteva proprio sfruttarli? Immaginò per un attimo di riuscire a creare un arco e tagliare in due, bruciandola, la cinghia; ma anche se avesse avuto a disposizione i conduttori necessari, e naturalmente non li aveva, era impossibile raggiungere la batteria dalla cabina di controllo.
Warren, e tutti i brillanti cervelli radunati attorno a lui, non erano riusciti a trovare una soluzione. Morgan era abbandonato a se stesso, fisicamente e intellettualmente. Dopo tutto, era il tipo di situazioni che aveva sempre preferito.