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Rani lo scrutò in silenzio per qualche secondo, poi decise che era inutile discutere.

— Ne parlerò a Dravindra — disse. — E a Jaya… Nel caso dovessero riportarvi indietro.

— Benissimo. Comunque sono sicuro che Dravindra potrebbe cavarsela da solo.

Rani gli dedicò un sorriso felice, in cui si mescolavano orgoglio e contentezza. Loro due, pensò lui dolcemente, erano stati la miglior scommessa vinta al banco della lotteria di stato; e sperava che quei due anni passati al suo servizio fossero stati gradevoli per loro quanto lo erano stati per lui. In quell'epoca, la servitù era il più raro dei lussi, concesso unicamente a uomini dai meriti straordinari. Rajasinghe non conosceva nessun altro civile che possedesse tre persone addette alla sua cura.

Per risparmiare le forze, nei Giardini del Piacere si servì di un triciclo a energia solare. Dravindra e Jaya scelsero di procedere a piedi, sostenendo che si faceva prima (il che era vero, però loro riuscivano a percorrere le scorciatoie). Poi salì molto lentamente, fermandosi diverse volte a riprendere fiato, finché non ebbe raggiunto il lungo corridoio della Galleria Inferiore, dove la Parete a specchi correva parallela alla faccia della Montagna.

Osservata dai soliti turisti curiosi, una giovane archeologa proveniente da una delle nazioni africane scrutava la parete in cerca d'iscrizioni, aiutandosi con una potente torcia obliqua. Rajasinghe fu sul punto d'avvertirla che le probabilità di fare una scoperta nuova erano praticamente zero. Paul Sarath aveva trascorso vent'anni a studiare ogni millimetro quadrato delle pareti, e i suoi "Graffiti di Yakkagala" in tre volumi erano un lavoro superbo, insuperabile, se non altro perché non sarebbe mai esistito un altro uomo capace di leggere con altrettanta abilità le iscrizioni in taprobani arcaico. Erano tutti e due giovani, quando Paul aveva iniziato il lavoro della sua vita. Rajasinghe ricordava ancora il momento in cui si trovava in quel medesimo punto, e l'allora vice-assistente epigrafista del Dipartimento d'Archeologia aveva scoperto le iscrizioni quasi indecifrabili sul gesso giallo e aveva tradotto i poemi dedicati alle bellissime donne dipinte sulla roccia. Dopo tanti secoli, quei versi facevano ancora vibrare qualcosa nel cuore di chi li leggeva:

Io sono Tissa,Capitano della Guardia.Ho percorso cinquanta legheper vedere le creaturedagli occhi di daina,Ma loro non mi hanno parlato.È bontà questa?
Che voi possiate rimanere quiper mille anni,come la lepre che il Re degli Dèiha dipinto sulla Luna.Io sono il sacerdote Mahindadel vihara di Tuparama.

Quella speranza era stata in parte esaudita, in parte no. Le signore della montagna erano lì da un periodo di tempo doppio di quello immaginato dal sacerdote, erano sopravvissute sino a un'epoca al di là dei suoi sogni più sfrenati. Ma come si erano ridotte in poche! Alcune iscrizioni parlavano di "cinquecento vergini dalla pelle dorata". Anche tenuto conto di considerevoli licenze poetiche, era chiaro che nemmeno un decimo degli affreschi originali era sfuggito alla furia del tempo o alla malevolenza dell'uomo. Ma le venti sopravvissute erano in salvo per sempre: la loro bellezza era riprodotta in innumerevoli pellicole e nastri e cristalli.

La loro fama aveva superato quella di uno scriba orgoglioso, che aveva ritenuto del tutto superfluo specificare il proprio nome:

Ho ordinato che la viafosse sgombrata, cosicchéi pellegrini possano vederele meravigliose verginisul fianco della montagna.Io sono il Re.

Nel corso degli anni, Rajasinghe (che portava un nome regale, e che senza dubbio ospitava molti geni regali) aveva pensato spesso a quelle parole: dimostravano in modo perfetto la natura effimera del potere, e la futilità dell'ambizione. "Io sono il Re." Ah, ma "quale" re? Il monarca che aveva calcato quel lastricato di granito quando era ancora quasi nuovo, milleottocento anni prima, era probabilmente un uomo capace e intelligente; ma non era riuscito a capire che un giorno anche lui sarebbe sprofondato nell'anonimato totale, come il più umile dei suoi sudditi. Ormai era del tutto impossibile identificarlo. Almeno una dozzina di re potevano aver scritto quelle frasi orgogliose: alcuni avevano regnato per anni, altri solo per settimane, e pochissimi erano morti tranquillamente nel loro letto. Nessuno avrebbe mai saputo se il re che aveva ritenuto superfluo firmarsi era Mahatissa II, o Bhatikabhaya, o Vijayakumara III, o Gajabahukagamani, o Candamukhasiva, o Moggallana I, o Kittisena, o Sirisamghabodhi… o qualche altro monarca che la lunga e complessa storia di Taprobane non registrava nemmeno.

L'inserviente addetto al piccolo ascensore rimase sorpreso davanti a quell'illustre turista, e salutò Rajasinghe con deferenza. Mentre la cabina lo trasportava quindici metri più in alto, lui ricordò i tempi in cui dalla scalinata a spirale osservava con disprezzo l'ascensore. Adesso erano Dravindra e Jaya, nella spensierata esuberanza della gioventù, a salire per quella scalinata.

L'ascensore si fermò e lui scese sulla piccola piattaforma d'acciaio, costruita in fuori rispetto alla parete della montagna. Sotto e dietro di lui si stendevano un centinaio di metri di spazio vuoto, ma la robusta rete di fili metallici assicurava tutta la protezione necessaria. Nemmeno il suicida più deciso avrebbe potuto sfuggire alla gabbia, abbastanza grande da contenere dodici persone, che pendeva dalla sporgenza rocciosa a forma di onda marina.

Lì, in quel rientro creato dal destino, dove la parete formava un'insenatura modesta che proteggeva gli affreschi dagli elementi, vivevano le creature superstiti della corte celeste del Re. Rajasinghe le salutò in silenzio, poi fu ben lieto di accomodarsi sulla sedia che gli offrì la guardia ufficiale.

— Vorrei essere lasciato in pace per dieci minuti — disse piano. — Jaya, Dravindra, vedete se riuscite a portare via i turisti.

I due amici gli lanciarono un'occhiata dubbiosa; e anche la guardia, che non avrebbe mai dovuto abbandonare gli affreschi. Ma, come sempre, l'ambasciatore Rajasinghe arrivò allo scopo, e senza nemmeno dover alzare la voce.

— Ayu bowan — salutò le figure, quando fu finalmente solo. — Mi duole di avervi trascurato per tanto tempo.

Rimase cortesemente in attesa d'una risposta, ma loro non gli prestarono più attenzione di quanta ne avessero riservata ad altri ammiratori negli ultimi venti secoli. Rajasinghe non si lasciò scoraggiare; era abituato alla loro indifferenza. Non faceva che aumentare il loro fascino.

— Ho un problema, mie care — proseguì. — Voi avete visto giungere e ripartire tutti gli invasori di Taprobane sin dal tempo di Kalidas. Avete visto la giungla avanzare come la marea attorno a Yakkagala, e poi ritrarsi davanti alle scuri e agli aratri. Ma in tutti questi anni non è mutato niente di sostanziale. La Natura e la Storia sono state gentili con Taprobane, non l'hanno disturbata…

"Ora può darsi che i secoli di pace stiano per finire. La nostra terra potrebbe diventare il centro del mondo, di molti mondi. La grande montagna a sud che voi osservate da tanto tempo potrebbe essere la chiave dell'universo. Se così è, la Taprobane che conoscevamo e amavamo non esisterà più.

"Forse io non posso fare molto… Però ho un certo potere, e posso aiutare o ostacolare. Ho ancora molti amici. Se volessi, potrei ritardare questo sogno (oppure è un incubo?) almeno fino al giorno della mia morte. Devo farlo? Oppure devo aiutare quest'uomo, a prescindere dai suoi veri motivi?"

Si girò verso la sua favorita, l'unica che non allontanava gli occhi quando la guardava. Tutte le altre vergini fissavano lontano, oppure scrutavano i fiori che reggevano in mano; ma la donna che lui aveva amato fin da giovane sembrava, da un certo angolo, raccogliere il suo sguardo.