Morgan aveva accettato la sua proposta con una certa riluttanza. Sapeva che si trattava di un'occasione storica, e si era fidato della promessa di Maxine: — Il mio uomo non ti starà fra i piedi. — Ma era anche perfettamente conscio di tutte le cose che potevano andare per il verso storto in un esperimento così rivoluzionario, specialmente durante gli ultimi cento chilometri di discesa nell'atmosfera. D'altro canto, sapeva che Maxine avrebbe presentato sia il fallimento che il trionfo senza il minimo sensazionalismo.
Come tutti i grandi giornalisti, Maxine Duval non era emotivamente distaccata dagli eventi che osservava. Poteva offrire ogni punto di vista, senza distorcere o omettere quei fatti che reputava essenziali. Eppure non tentava di nascondere le proprie emozioni, anche se non permetteva che le prendessero la mano. Ammirava enormemente Morgan, con la meraviglia un po' invidiosa di chi non possiede una vera capacità creativa. Era dai tempi del Ponte di Gibilterra che aspettava di vedere cos'altro avrebbe fatto l'ingegnere; e non era rimasta delusa. Ma, anche se augurava ogni fortuna a Morgan, lui in realtà non le piaceva. Riteneva che la spinta terribile e spietata dell'ambizione lo rendesse superiore alla forza stessa della vita, ma poco umano. Non poteva fare a meno di paragonarlo al suo vice, Warren Kingsley. Quella era una persona gentile e deliziosa ("E un ingegnere migliore di me" le aveva detto una volta Morgan). Ma nessuno avrebbe mai sentito parlare di Warren; sarebbe sempre rimasto un satellite fedele che girava felice all'ombra del pianeta primario.
Era Warren che le aveva pazientemente spiegato i meccanismi, sorprendentemente complessi, del lancio. A occhio e croce pareva abbastanza semplice far precipitare qualcosa in linea retta sull'equatore, da un satellite immobile sul bersaglio. Ma l'astrodinamica era zeppa di paradossi: se si cercava di rallentare, si accelerava. Se si sceglieva il percorso più breve, si bruciava più carburante. Se si puntava in una direzione, si viaggiava nell'altra… Per non parlare che dei campi gravitazionali. Adesso la situazione era molto più complicata. Nessuno aveva mai provato a lanciare una sonda che si tirava dietro quarantamila chilometri di filo. Ma il programma Ashoka aveva funzionato perfettamente, sino all'arrivo ai margini dell'atmosfera. Entro pochi minuti il centro di controllo di Sri Kanda sarebbe entrato in azione per l'ultima fase della discesa. C'era poco da stupirsi che Morgan apparisse teso.
— Van — disse Maxine sul suo circuito personale, dolce ma ferma — smettila di succhiarti il pollice. Sembri un bambino.
Morgan si sentì indignato, poi sorpreso, e alla fine si rilassò con un sorriso lievemente imbarazzato.
— Grazie per l'avvertimento — disse. — Non vorrei distruggere la mia immagine pubblica.
Guardò con timido divertimento il pezzo di pollice che gli mancava e si chiese quando tutti gli spiritosi avrebbero smesso di esclamare: — Ah! L'ingegnere si è fatto male coi suoi petardi! — Dopo tutte le volte che aveva messo in guardia gli altri, era diventato imprudente ed era riuscito a ferirsi mentre dava una dimostrazione delle proprietà dell'iperfilamento. Praticamente non c'era stato dolore, e pochissimi inconvenienti. Un giorno avrebbe fatto qualcosa in merito; ma proprio non poteva permettersi di passare un'intera settimana collegato a un rigeneratore d'organi solo per due centimetri di pollice.
— Altezza due cinque zero — disse una voce calma, impersonale, dalla cabina di controllo. — Velocità della sonda uno sei zero metri al secondo. Tensione del filamento novanta per cento nominale. Apertura del paracadute fra due minuti.
Dopo quella pausa momentanea, Morgan era di nuovo teso e in guardia; come un pugile, non poté impedirsi di pensare Maxine Duval, che studiasse un avversario sconosciuto ma pericoloso.
— Com'è la situazione del vento? — chiese Morgan.
Gli rispose un'altra voce, questa volta tutt'altro che impersonale.
— Non riesco a crederci — disse con tono preoccupato. — Ma il Controllo Monsoni ha appena diramato un preavviso di tempesta.
— Non è il momento di scherzare.
— Non stanno scherzando. Ho già chiesto conferma.
— Ma avevano garantito correnti non superiori ai trenta chilometri orari!
— Hanno alzato il massimo a sessanta… Mi correggo, ottanta. Qualcosa è andata proprio male…
— Lo sapevo — mormorò Maxine fra sé. Poi trasmise istruzioni ai suoi occhi e orecchi lontani: — Scompari. Non ti vogliono in giro, ma non perdere niente. — Abbandonando il Remoto alle prese con quegli ordini piuttosto contraddittori, consultò il suo eccellente servizio d'informazioni meteorologiche. Le occorsero meno di trenta secondi per scoprire quale stazione meteorologica era responsabile del tempo nella zona di Taprcbane. Ed era frustrante, ma non sorprendente, vedere che non accettava chiamate dal pubblico generico.
Ordinò al suo efficientissimo staff di superare quell'ostacolo e si ricollegò con la montagna. E fu sorpresa di scoprire quanto fossero peggiorate le condizioni, anche in quel breve intervallo.
Il cielo si era fatto più scuro. I microfoni raccoglievano il ruggito debole, lontano, della tempesta in arrivo. Maxine Duval aveva incontrato cambiamenti di tempo così bruschi in mare, e più d'una volta se n'era avvantaggiata nelle sue scorrerie oceaniche. Ma adesso era una sfortuna incredibile. Si sentì vicina a Morgan: i suoi sogni, le sue speranze potevano essere spazzate via da quell'imprevisto, quell'" impossibile" scoppio di vento.
— Altezza due zero zero. Velocità della sonda uno uno cinque metri al secondo. Tensione novantacinque per cento nominale.
Per cui la tensione cresceva, in tutti i sensi. Non si poteva interrompere l'esperimento in una fase così avanzata. A Morgan non restava che continuare e sperare. Maxine avrebbe voluto parlargli, ma capiva benissimo di non doverlo disturbare in quel momento.
— Altezza uno nove zero. Velocità uno uno zero zero. Tensione centocinque per cento. Apertura del primo paracadute… ORA!
La sonda era arrivata, era prigioniera dell'atmosfera terrestre. Ora il poco carburante che restava andava usato per raggiungere la rete tesa sulla montagna. I cavi che sostenevano la rete, sotto la spinta del vento, cominciavano già a sobbalzare.
D'improvviso Morgan emerse dalla cabina di controllo e fissò il cielo. Poi si girò e guardò direttamente nella telecamera.
— "Qualunque cosa" succeda, Maxine — disse lentamente, attentamente — la prova ha già avuto successo al novantacinque per cento. No, al novantanove per cento. Abbiamo superato trentaseimila chilometri e ce ne restano meno di duecento.
Maxine non rispose. Sapeva che quelle parole non erano per lei, ma per l'uomo seduto sulla complessa sedia a rotelle appena fuori la cabina. L'identità dell'uomo era chiara: solo qualcuno in visita alla Terra aveva bisogno di un apparecchio del genere. I dottori potevano ormai curare praticamente tutte le malformazioni muscolari; ma i fisici non potevano curare la gravità.
Queste forze e interessi si concentravano sulla cima di quella montagna! Le forze della natura, la Banca di Narodny Marte, la Repubblica Autonoma del Nord Africa, Vannevar Morgan (che da solo era una forza naturale non trascurabile), e quei monaci implacabili nel loro eremo.
Maxine Duval mormorò istruzioni al suo paziente Rem, e la telecamera guizzò dolcemente in alto. Apparve la cima, incoronata dalle pareti bianchissime del tempio. Qui e là, lungo i parapetti, Maxine intravedeva tuniche arancioni che fluttuavano nella tempesta. Come si aspettava, i monaci erano in osservazione.
Li riprese con una zoomata, arrivando abbastanza vicino da distinguere le singole facce. Non aveva mai incontrato il Maha Thero (perché un'intervista le era stata cortesemente rifiutata) ma sperava di riuscire a riconoscerlo. Ma non c'era segno del prelato; forse era chiuso nel "sancta sanctorum", a concentrare la sua volontà formidabile su qualche esercizio spirituale.