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Poche cose ornavano le pareti della stanza d'hotel che da circa un decennio costituiva una delle quattro case "temporanee" di Morgan. Fra queste cose spiccava una foto talmente ben truccata che alcuni ospiti non riuscivano a credere che si trattasse d'un montaggio. La foto era dominata da un piroscafo a vapore grazioso, amorevolmente restaurato: l'antenato di ogni vascello che potesse legittimamente essere definito moderno. A fianco dell'imbarcazione, sul molo a cui il piroscafo era stato miracolosamente restituito centoventicinque anni dopo il varo, si trovava il dottor Vannevar Morgan. Fissava le volute ornamentali della prua dipinta; e a pochi metri di distanza, a lanciargli un'occhiata interrogativa, c'era Isambard Kingdom Brunel, le mani infilate in tasca e il sigaro in bocca.

Tutti gli elementi della foto erano reali. Morgan aveva davvero posato a fianco della "Great Eastern", in un giorno d'estate a Bristol, l'anno dopo la realizzazione del Ponte di Gibilterra. Ma Brunel si trovava sempre nel 1857, ancora in attesa del varo del suo successivo, celeberrimo leviatano, le cui traversie lo avrebbero stroncato nel corpo e nello spirito.

La foto era stata regalata a Morgan per il suo cinquantesimo compleanno, ed era una delle cose che lui amava di più. I suoi colleghi l'avevano intesa come uno scherzo simpatico, dato che l'ammirazione di Morgan per il grande ingegnere del diciannovesimo secolo era nota a tutti. A volte, però, lui si chiedeva se l'idea dei suoi amici non fosse più esatta di quanto loro non pensassero. Il "Great Eastern" aveva divorato il suo creatore. La Torre poteva riservargli lo stesso destino.

Brunel, ovviamente, era circondato di Paperini. Il più insistente era un certo dottor Dionysius Lardner, che aveva dimostrato, al di là d'ogni dubbio, che nessun piroscafo a vapore era in grado di solcare l'Atlantico. Un tecnico poteva respingere le critiche basate su errori concreti o semplicemente su calcoli errati. Ma il punto sollevato da Paperino era più sottile, e la risposta non appariva facile. Morgan ricordò d'improvviso che quell'eroe aveva dovuto affrontare una crisi molto simile alla sua, tre secoli prima.

Tese la mano verso la sua collezione di libri veri, piccola ma senza prezzo, e prese quello che aveva letto, forse, più spesso di tutti: la classica biografia di Rolt "Isambard Kingdom Brunel". Sfogliando in fretta le pagine sporche di ditate, trovò subito il brano che aveva sollecitato la sua memoria.

Brunel aveva progettato un tunnel ferroviario lungo quasi tre chilometri, un'idea "mostruosa e paurosa, pericolosissima e impraticabile". Era inconcepibile, dissero i suoi detrattori, che esseri umani potessero sopportare l'orrore di viaggiare in quell'abisso stigio. "Nessuna persona può desiderare di essere tagliata fuori dalla luce del sole sapendo che sopra di sé c'è una quantità di terreno sufficiente a seppellirla in caso d'incidente… Il rumore di due treni che s'incrociano spezzerebbe i nervi… Nessun passeggero rifarebbe il viaggio una seconda volta…"

Parole già familiari. I Lardner e i Bickerstaff dovevano avere per motto: "Niente sarà fatto per la prima volta".

Eppure, "a volte avevano ragione", se non altro in forza delle leggi delle probabilità. Come lo raccontava Paperino, sembrava tutto così ragionevole. Aveva cominciato col dire, in un guizzo di modestia insolito quanto falso, che non pretendeva certo di criticare gli aspetti tecnici dell'elevatore spaziale. Voleva parlare solo dei problemi psicologici che avrebbe posto, riassumibili in un'unica parola: vertigine. L'essere umano medio, aveva fatto notare, possiede un timore più che giustificato dei luoghi alti; solo gli acrobati, i funamboli, sono immuni a questa reazione naturale. La costruzione più alta sulla Terra non raggiungeva i cinque chilometri; e non era poi molta la gente che si sarebbe lasciata tirare su in verticale lungo i pilastri del Ponte di Gibilterra.

Eppure quello era niente a paragone della terribile prospettiva della torre orbitale. "Chi non si è mai trovato" aveva declamato Bickerstaff "ai piedi di un edificio immenso, a fissarne la superficie vertiginosa sino ad avere l'impressione che stesse per cadere? Immaginate un edificio del genere che sale fra le nubi, nel buio dello spazio, traversando la ionosfera, superando le orbite di tutte le grandi stazioni spaziali, che continua a salire fino a coprire buona parte della distanza fra Terra e Luna! Un trionfo dell'ingegneria, senza dubbio; ma un incubo psicologico. Ritengo che qualcuno impazzirà alla semplice vista. E quanti riusciranno ad affrontare il vertiginoso orrore del viaggio, a salire 'in alto', sospesi sul vuoto dello spazio, per i venticinquemila chilometri sino alla prima fermata della Stazione di Mezzo?

"Non è una risposta esatta dire che individui perfettamente normali possono volare alla stessa altezza, e molto oltre, su una nave spaziale. È una situazione completamente diversa, simile al normale volo atmosferico. L'uomo medio non prova vertigine nemmeno se si trova sospeso nella navicella di un pallone aerostatico che fluttua in aria a qualche chilometro dal suolo. Ma mettetelo sull'orlo di un precipizio alla stessa altezza, e studiate le sue reazioni in quel momento!

"Il motivo di questa differenza è semplicissimo. Su una nave spaziale non esiste nessun legame fisico tra l'osservatore e il suolo. Di conseguenza, dal punto di vista psicologico egli è completamente distaccato dalla dura, solida terra che ha sotto. Non prova più il terrore della caduta; può scrutare paesaggi minuscoli e lontani che non oserebbe mai contemplare da una montagna alta. All'elevatore spaziale manca proprio questo distacco provvidenziale. Il povero passeggero, scaraventato su lungo la superficie della torre gigantesca, sarà fin troppo conscio del legame con la terra. Quali garanzie possiamo avere che qualcuno, a meno di non trovarsi sotto droga o anestesia, possa sopravvivere a una tale esperienza? Sfido il dottor Morgan a rispondermi."

Il dottor Morgan stava ancora pensando alle risposte, poche delle quali decenti, quando lo schermo si accese di nuovo: c'era una chiamata. Quando schiacciò il pulsante di CHIAMATA ACCETTATA, non restò affatto sorpreso nel vedere Maxine Duval.

— Allora, Van — disse lei, senza preamboli — cosa hai intenzione di fare?

— Ho la tentazione di rispondere, ma credo che non dovrei mettermi a discutere con quell'idiota. Tra l'altro, pensi sia stata qualche società aerospaziale a mettermelo contro?

— I miei uomini stanno già indagando. Se scoprono qualcosa te lo faccio sapere. Personalmente credo che sia tutta farina del suo sacco. Riconosco i segni della sua genuina personalità. Ma non hai risposto alla mia domanda.

— Non ho deciso. Sto ancora tentando di digerire la colazione. Tu cosa pensi che dovrei fare?

— Semplice: organizza una dimostrazione. Tra quanto potrebbe essere pronta?

— Fra cinque anni, se tutto va bene.

— Ridicolo. Hai già impiantato il primo cavo…

— Non cavo. Nastro.

— Non interrompermi. Che peso può sopportare?

— Oh… Al capo terrestre, non più di cinquecento tonnellate.

— Siamo a posto. Offri un giro a Paperino.

— Non garantirei la sua incolumità.

— Garantiresti la mia?

— Non parlerai sul serio!

— Parlo sempre sul serio, a quest'ora del mattino. Comunque era ora che preparassi un altro pezzo sulla Torre. Quel modello di caspsula è bellissimo, ma non fa niente. Ai miei spettatori piace l'azione, e anche a me. L'ultima volta che ci siamo visti mi hai mostrato i disegni di quegli apparecchietti che i tecnici useranno per salire e scendere lungo i cavi… Lungo i nastri, cioè. Come li hai chiamati?