In una delle sue rare visite all'equatore, l'aurora boreale si era spinta fin lì dai poli.
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Oltre l'aurora boreale
Morgan dubitava che persino il professor Sessui, cinquecento chilometri più in alto, avesse una visuale così spettacolare. La tempesta si stava sviluppando in fretta; le onde corte radio, ancora usate per molti servizi non essenziali, dovevano già essere inutilizzabili nel mondo intero. Morgan non era certo se udiva con le orecchie o con altri sensi un rumore debole, simile al sospiro della sabbia che cade o allo scricchiolìo di ramoscelli secchi. Di certo non proveniva dall'altoparlante, come era successo con l'interferenza della sfera di fuoco, perché quando interruppe il circuito audio il rumore non cessò.
Sipari di un fuoco verde pallido, scarlatti agli orli, venivano distesi lungo il cielo e poi scossi lentamente avanti e indietro, come da una mano invisibile. Tremavano sotto il soffio del vento solare, la corrente che a un milione di chilometri l'ora soffiava dal Sole alla Terra, e molto oltre. Persino al di sopra di Marte s'era acceso un debole spettro colorato; e, controsole, i cieli micidiali di Venere erano in fiamme. Sopra i sipari, lunghi raggi simili alle stecche di un ventaglio semiaperto spazzavano l'orizzonte. A volte colpivano Morgan direttamente negli occhi, come le luci di riflettori giganteschi, lasciandolo abbagliato per interi minuti. Non era più necessario tener accesa l'illuminazione della capsula per respingere il buio: quei fuochi celesti erano talmente forti che alla loro luce si sarebbe potuto leggere.
Duecento chilometri. Il Ragno continuava a salire in silenzio, senza sforzi. Era difficile credere di essersi staccato dalla Terra solo un'ora prima. E anche difficile credere che la Terra esistesse ancora perché adesso lui viaggiava fra le pareti di un canyon di fuoco.
L'illusione durò pochi secondi; poi si spezzò l'equilibrio momentaneo, instabile, tra campi magnetici e nubi elettriche. Ma in quel breve istante Morgan poté davvero credere di risalire un abisso straordinariamente più grande anche di Valles Marineris, il Grand Canyon di Marte. Poi quei picchi scintillanti, alti almeno cento chilometri, divennero trasparenti e dietro apparvero le stelle. Li vide per quello che erano realmente: semplici fantasmi di fluorescenza.
E adesso, come un aereo che uscisse da un banco di nubi basse, il Ragno si arrampicava al di sopra di quello spettacolo. Morgan stava riemergendo da una nebbia di luce che si agitava e ruotava sotto di lui. Molti anni prima aveva compiuto una crociera sui mari tropicali, e ricordava che una notte si era unito agli altri passeggeri della nave a poppa, incantato dalla bellezza e dalla singolarità della scia bioluminescente. Alcuni dei verdi e dei blu che adesso fluttuavano sotto di lui erano identici ai colori prodotti dal plancton che aveva ammirato allora, e non gli era difficile immaginare che anche adesso si trattasse di sottoprodotti di esseri viventi: bestie gigantesche, invisibili, che vivevano negli strati alti dell'atmosfera…
Aveva quasi dimenticato la propria missione, e fu per lui un vero colpo sentirsi richiamare al dovere.
— Com'è la situazione dell'energia elettrica? — chiese Kingsley. — Quella batteria deve durarti solo altri venti minuti.
Morgan guardò il pannello.
— È scesa al novantacinque per cento, ma la mia velocità di salita è aumentata del cinque per cento. Sto andando a duecentodieci chilometri all'ora.
— Più o meno è giusto. Il Ragno risente della gravità inferiore. Al tuo livello è già scesa del dieci per cento.
Troppo poco per accorgersene, in particolare se si era legati a un sedile con diversi chili di tuta spaziale addosso. Eppure Morgan si sentiva leggero. Si chiese se gli arrivava troppo ossigeno.
No, il flusso era normale. Doveva trattarsi del piacere prodotto dal meraviglioso spettacolo che aveva sotto, che però adesso andava scomparendo, si ritirava a nord e a sud, come per riprendere possesso dei poli. E poi c'era anche la soddisfazione di una missione iniziata perfettamente, servendosi di una tecnologia che nessuno aveva sperimentato a quei limiti.
La spiegazione era perfettamente ragionevole, però non lo soddisfaceva. Non bastava a spiegare il suo senso di felicità, addirittura di gioia. Warren Kingsley, subacqueo appassionato, gli aveva raccontato spesso che provava sensazioni del genere nell'ambiente privo di peso del mare. Morgan non lo aveva mai capito sino in fondo, ma adesso intuiva di cosa dovesse trattarsi. Gli sembrava di aver lasciato tutte le preoccupazioni sul pianeta nascosto sotto i sipari e i raggi sempre più deboli dell'aurora boreale.
Le stelle stavano riprendendo il loro posto, non più nascoste da quello strano intruso giunto dai poli. Morgan cominciò a scrutare lo zenit senza troppe speranze, chiedendosi se la Torre fosse già visibile. Ma riusciva a vedere solo pochi metri, ancora illuminati dal debole splendore aurorale, del nastro sottile che il Ragno risaliva speditamente. Quel nastro minuscolo da cui dipendeva la sua vita, e la vita di altre sette persone, era così uniforme e monotono che non lasciava affatto intuire la velocità della capsula. Morgan trovava difficile credere che stava sfrecciando a più di duecento chilometri l'ora. E quel pensiero lo riportò d'improvviso all'infanzia, e lui seppe perché si sentiva così felice.
Si era ripreso in fretta dalla perdita di quel primo aquilone, era passato a modelli più grandi e più complessi. Poi, appena prima di scoprire il Tecnomeccano e di abbandonare per sempre gli aquiloni, aveva condotto qualche esperimento coi paracadute. A Morgan piaceva pensare di aver escogitato l'idea da solo, anche se forse qualche lettura o qualche spettacolo gliel'avevano suggerita. La tecnica era talmente semplice che intere generazioni di ragazzi dovevano averla riscoperta.
Per prima cosa preparava una sottile striscia di legno lunga circa cinque centimetri e vi agganciava due fermagli per carta. Poi faceva passare il filo dell'aquilone tra i fermagli, preparava un paracadute di carta sottile, grande quanto un fazzoletto, con nastri di seta; un quadratino di cartone serviva da contrappeso. Quando aveva attaccato il quadratino alla striscia di legno con un elastico, ma non troppo stretto, il gioco era fatto.
Spinto dal vento, il piccolo paracadute risaliva lungo il filo, arrivando fino all'aquilone lungo quella graziosa catenaria. Poi Morgan dava un colpo deciso e il contrappeso di cartone si sganciava dall'elastico. Il paracadute si allontanava in cielo, mentre l'intelaiatura di legno e filo gli tornava subito in mano, pronta per il lancio successivo.
Con quanta invidia aveva guardato le sue creature di carta che volavano leggere verso il mare! Quasi tutte cadevano sull'acqua prima di aver percorso un solo chilometro, ma a volte un paracadute se ne stava ancora coraggiosamente in alto quando scompariva ai suoi occhi. Gli piaceva immaginare che quei giocattoli fortunati raggiungessero le isole incantate del Pacifico; aveva anche scritto il suo nome e indirizzo sui quadratini di cartone, senza però ricevere mai risposta.
Morgan non poté impedirsi di sorridere a quei ricordi dimenticati da tempo; eppure spiegavano molte cose. I sogni dell'infanzia erano stati sorpassati, di gran lunga, dalla realtà della vita adulta; si era guadagnato il diritto di essere felice.
— Sei quasi a trecentottanta chilometri — disse Kingsley. — Come va l'elettricità?
— Sta cominciando a diminuire. È all'ottantacinque per cento. La batteria si sta scaricando
— Se tiene per altri venti chilometri ha fatto il suo lavoro. Come ti senti?
Morgan fu tentato di rispondere con superlativi, ma la sua cautela naturale lo dissuase. — Sto bene — disse. — Se potessimo assicurare uno spettacolo del genere a tutti i passeggeri, saremmo sommersi dalle folle.
— Forse si può fare — rise Kingsley. — Potremmo chiedere al Controllo Monsoni di inviare qualche elettrone nei punti giusti. Non è il loro lavoro normale, ma con le improvvisazioni se la cavano bene, no?