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Morgan ridacchiò, ma non rispose.

I suoi occhi erano puntati sul pannello di controllo, da cui risultava che il flusso d'elettricità e la velocità di salita stavano diminuendo in maniera sensibile. Ma non c'era motivo d'allarmarsi: su 400 chilometri previsti il Ragno ne aveva già divorati 385, e la batteria esterna aveva ancora un po' di carica.

Al trecentonovantanovesimo chilometro Morgan prese a ridure la velocità di salita, finché il Ragno rallentò sempre di più. Dopo un po' la capsula si muoveva appena, e alla fine si fermò poco dopo il quattrocentocinquesimo chilometro.

— Sgancio la batteria — annunciò Morgan. — Attenzione alla testa.

Si era pensato a lungo al modo di recuperare quella batteria pesante e costosa, ma non c'era stato il tempo d'improvvisare un sistema di freni che la riportasse indietro, come una delle intelaiature per paracadute di Morgan.

In effetti un paracadute sarebbe stato disponibile, ma si era temuto che potesse impigliarsi nel nastro. Fortunatamente la zona dell'impatto, dieci chilometri a est del Capolinea Terrestre, si trovava nel fitto della giungla.

Gli animali selvatici di Taprobane avrebbero corso un bel rischio, e Morgan era già pronto a discutere col Dipartimento per l'Ecologia.

Tolse la sicura e poi schiacciò il pulsante che azionava le cariche esplosive. Il Ragno ebbe un veloce scossone alla detonazione. Poi mise in funzione la batteria interna, allentò dolcemente i freni, e diede nuovamente energia ai motori.

La capsula ripartì per l'ultima parte del viaggio. Ma un'occhiata al pannello rivelò a Morgan la presenza di un serio inconveniente. Il Ragno avrebbe dovuto salire a più di duecento chilometri orari; invece andava al di sotto dei cento, anche a pieno regime. Non erano necessari calcoli o prove. La diagnosi di Morgan fu istantanea, e le cifre parlavano da sole. Scosso e deluso, si rimise in contatto con la Terra.

— Siamo nei guai — disse. — Le cariche sono esplose, ma la batteria non si è sganciata. Qualcosa la tiene fissa al suo posto.

Naturalmente era inutile aggiungere che la missione era fallita. Tutti sapevano perfettamente che il Ragno non sarebbe riuscito a raggiungere la base della Torre con diverse centinaia di chili di peso morto.

48

Notte alla villa

Ormai l'ambasciatore Rajasinghe aveva bisogno di poco sonno. Era come se la Natura, benevolmente, gli stesse concedendo di sfruttare al massimo gli anni che gli rimanevano. E in nottate come quella, quando i cieli di Taprobane erano illuminati dallo spettacolo più straordinario che si vedesse da secoli, chi restava a letto?

Quanto avrebbe desiderato che Paul Sarath fosse lì con lui a vederlo! Il suo vecchio amico gli mancava più di quanto avrebbe ritenuto possibile; non c'era nessuno che potesse infastidirlo e stimolarlo come Paul, nessuno con cui avesse diviso, sin dalla fanciullezza, tante esperienze. Rajasinghe non aveva creduto di poter sopravvivere a Paul, o di riuscire a vedere la fantastica stalattite della Torre (un miliardo di tonnellate!) colmare quasi per intero l'abisso tra l'orbita sincrona e Taprobane, trentaseimila chilometri più in basso. Negli ultimi tempi Paul era diventato un nemico accanito del progetto; aveva detto che era una spada di Damocle, e non aveva mai smesso di predire che tutto sarebbe ricaduto sulla Terra. Eppure persino Paul aveva ammesso che la Torre aveva già prodotto alcuni vantaggi.

Forse per la prima volta nella storia, il resto del mondo era al corrente dell'esistenza di Taprobane, e stava scoprendo la sua antica cultura. Yakkagala, con la sua mole enorme e le sue leggende sinistre, aveva suscitato un'attenzione particolare; per cui Paul era riuscito a ottenere i flnanziamenti per alcuni dei suoi progetti più amati. L'enigmatica personalità del creatore di Yakkagala aveva già fornito spunto a numerosi libri e videodrammi, e lo spettacolo "son-et-lumière" ai piedi della Montagna registrava regolarmente il tutto esaurito. Poco prima di morire, Paul aveva detto seccamente che Kalidas stava diventando un buon affare, e che era sempre più difficile distinguere tra leggenda e realtà.

Subito dopo la mezzanotte, quando fu evidente che l'aurora boreale era giunta al culmine, Rajasinghe venne trasportato in camera da letto. Come faceva sempre dopo aver dato la buonanotte al personale della villa, si concesse un momento di relax con un bicchierino di ponce caldo e diede un'occhiata alle ultime notizie. L'unica cosa che lo interessava sul serio era l'impresa di Morgan: ormai doveva essere vicino alla base della Torre.

Il giornalista di turno aveva già commentato gli ultimi sviluppi della situazione. Una scritta che correva di continuo in basso sullo schermo diceva: MORGAN IMMOBILIZZATO A 200 CHILOMETRI DALLA META.

Le dita di Rajasinghe chiesero ulteriori dettagli, e lui fu lieto di scoprire che le sue paure iniziali erano prive di fondamento. Morgan "non" era immobilizzato; semplicemente non era in grado di terminare il viaggio. Poteva tornare sulla Terra quando voleva; ma se tornava, il professor Sessui e i suoi colleghi erano condannati a una morte certa.

In quel momento, direttamente sopra la sua testa, si stava svolgendo il dramma. Rajasinghe passò dai titoli elettronici al video, ma non c'era niente di nuovo; anzi, adesso stavano trasmettendo la registrazione del viaggio di Maxine Duval, avvenuto anni prima, su un prototipo del Ragno.

— Io posso fare di meglio — mormorò Rajasinghe, e mise in funzione il suo adorato cannocchiale.

I primi mesi dopo essersi trovato confinato a letto, gli era stato impossibile usarlo. Poi Morgan aveva fatto una delle sue brevi visite di cortesia, aveva analizzato la situazione e prescritto la cura. Una settimana più tardi, tra la sorpresa e il piacere di Rajasinghe, un gruppetto di tecnici si era presentato a Villa Yakkagala, e aveva adattato lo strumento al controllo a distanza. Adesso, standosene comodamente coricato a letto, lui poteva esplorare i cieli lontani e la superficie immensa della Montagna. Era profondamente grato a Morgan per quel gesto, che gli aveva mostrato un lato della personalità dell'ingegnere di cui non sospettava l'esistenza.

Non era ben sicuro di cosa potesse vedere nel buio della notte; ma sapeva esattamente dove puntare l'obiettivo, perché da molto seguiva la lenta discesa della Torre. Quando il sole si trovava all'angolo giusto, riusciva persino a vedere i quattro nastri di guida che convergevano verso lo zenit, quattro linee di luce tracciate in cielo.

Inserì il comando del cannocchiale sull'angolo azimutale e lo puntò in alto, esattamente al di sopra di Sri Kanda. Mentre cominciava a seguire piano i nastri, cercando i segni che indicassero la presenza della capsula, si chiese cosa pensasse il Maha Thero di quegli ultimi avvenimenti. Rajasinghe non aveva più parlato al monaco, che ormai aveva passato i novant'anni, da che l'Ordine si era trasferito a Lhasa; ma immaginava che il Potala non avesse fornito tutto quello che i monaci si aspettavano. Il grande palazzo stava cadendo a pezzi poco per volta, mentre gli esecutori testamentari del Dalai Lama litigavano col Governo Federale Cinese per le spese di manutenzione. Secondo le ultime informazioni in possesso di Rajasinghe, il Maha Thero era in trattative col Vaticano, a sua volta sommerso da difficoltà finanziarie croniche, ma che perlomeno possedeva un proprio territorio.

Vero, nessuna cosa è eterna, ma non era facile scorgere uno schema ciclico. Forse ci sarebbe riuscito il genio matematico di Parakarma-Goldberg. L'ultima volta che Rajasinghe lo aveva visto, stava ricevendo un importante premio scientifico per il suo contributo alla meteorologia. Rajasinghe non lo avrebbe mai riconosciuto: aveva i capelli tagliati a spazzola, e indossava un vestito all'ultima moda neo-napoleonica. Però sembrava che adesso fosse stato ripreso da impulsi religiosi… Le stelle scivolavano lentamente sul grande monitor a capo del letto, e il cannocchiale si alzava verso la Terra. Ma non c'era segno della capsula, anche se Rajasinghe era sicuro che ormai dovesse trovarsi nel campo della sua visuale.