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Voleva dormire, ma, contro la sua stessa volontà, l'immaginazione s'era attaccata all'idea. Era come un cane che avesse appena trovato un osso, non mollava. L'idea non era assurda, e nemmeno originale. Molte delle stazioni sincrone si estendevano per chilometri, oppure possedevano all'esterno cavi che coprivano una parte non indifferente della loro orbita. Unirle assieme, formare un anello attorno al mondo, sarebbe stato molto più semplice che costruire la Torre, e sarebbe occorso molto meno materiale.

No, non un anello, "una ruota". La sua Torre era solo il primo raggio. Ne sarebbero sorte altre (quattro? sei? venti?) disposte lungo l'equatore. Una volta che fossero tutte collegate fra loro, rigidamente, in orbita, i problemi di stabilità che condizionavano una Torre sola sarebbero svaniti. L'Africa, il Sudamerica, le isole Gilbert, l'Indonesia: "tutti" quei posti potevano ospitare il capolinea terrestre, se necessario. Perché un giorno, col migliorare dei materiali e con l'avanzare della scienza, le Torri potevano diventare invulnerabili anche agli uragani più forti, e non sarebbe stato più necessario partire da una montagna. Se avesse aspettato altri cento anni, forse non avrebbe dovuto disturbare il Maha Thero…

Mentre lui sognava, la falce sottile della luna calante si era alzata timidamente sull'orizzonte orientale che splendeva già delle primissime luci dell'alba. Il chiarore della Terra illuminava con tanta forza il disco della luna che Morgan riusciva a vedere molti particolari del lato oscuro. Sperò di riuscire a scorgere quello spettacolo meraviglioso che in altri tempi non s'era mai visto: una stella persa fra le braccia della luna calante. Ma quella notte non era visibile nessuna delle città costruite sulla seconda patria dell'uomo.

Ancora duecento chilometri, meno di un'ora. Era inutile cercare di restare sveglio: Spider era programmato per un rientro morbido, si sarebbe fermato dolcemente, senza disturbare il suo sonno…

Il dolore lo svegliò per primo. Una frazione di secondo dopo, si fece viva CORA. — Non tentate di muovervi — gli disse dolcemente. — Ho chiamato aiuto via radio. L'ambulanza sta arrivando.

Questa è buona! Ma non ridere, si impose Morgan, sta facendo del suo meglio. Non provava paura. Il dolore sotto il petto era forte, ma non lo paralizzava. Cercò di concentrare la mente sul male, e la cosa bastò ad alleviare i sintomi. Molto tempo prima aveva scoperto che il modo migliore per affrontare il dolore è studiarlo con obiettività.

Warren lo stava chiamando, ma le parole erano così lontane e avevano poco significato. Avvertiva l'ansietà nella voce del suo amico, e avrebbe voluto poter far qualcosa per diminuirla; ma non aveva più la forza di affrontare quel problema, o qualsiasi altro problema. Adesso non riusciva nemmeno più a udire le parole: un ronzio debole ma continuo soffocava tutti gli altri suoni. Sapeva che esisteva solo nella sua mente, oppure nel labirinto delle sue orecchie, eppure sembrava del tutto reale. Gli sembrava proprio di trovarsi ai piedi di una cascata gigantesca…

Il suono diventava più dolce, più lieve, "più musicale". E d'improvviso lo riconobbe. Che meraviglia udire ancora, nelle silenziose frontiere dello spazio, il suono che ricordava dalla sua prima visita a Yakkagala!

La gravità lo stava riportando a casa, ed era come se attraverso i secoli la sua mano invisibile avesse tracciato la traiettoria delle Fontane del Paradiso. Ma lui aveva creato qualcosa di cui la gravità non si sarebbe mai impossessata, finché gli uomini possedevano la scienza e la volontà per restarne padroni.

Com'erano fredde le gambe! Cos'era successo al sistema di sopravvivenza del Ragno? Ma presto sarebbe giunta l'alba; il calore non sarebbe mancato.

Le stelle stavano scomparendo, molto più in fretta di quanto non fosse naturale. Quello era strano: il giorno era quasi spuntato, eppure attorno a lui tutto diventava scuro. E le fontane ricadevano verso terra, la loro voce si faceva più debole… più debole… più debole…

E adesso c'era un'altra voce, ma Vannevar Morgan non l'udì. Tra i fischi brevi, penetranti, CORA gridò all'alba che si avvicinava:

– Aiuto! Chiunque mi senta mi raggiunga subito! Questo è un allarme CORA! Aiuto! Chiunque mi senta mi raggiunga subito!

CORA gridava ancora quando nacque il giorno, e i suoi primi raggi carezzarono la cima della montagna un tempo sacra. Molto più sotto, il cono d'ombra di Sri Kanda spuntò fra le nubi, ancora perfettamente intatto nonostante tutto quello che l'uomo aveva compiuto.

Adesso non c'erano più pellegrini ad ammirare quel simbolo di eternità che si stendeva sulla terra al risveglio. Ma milioni di uomini lo avrebbero visto, nei secoli futuri, mentre correvano comodamente e tranquillamente verso le stelle.

58

Epilogo: il trionfo di Kalidas

Negli ultimi giorni di quell'ultima, breve estate, prima che la morsa di ghiaccio si chiudesse attorno all'equatore, uno degli inviati di Stellisola giunse a Yakkagala.

Era un Signore degli Sciami, e ultimamente si era coniugato sotto forma umana. A parte un minimo particolare, la somiglianza era eccellente; ma la dozzina di bambini che avevano accompagnato l'Isolano sull'autoelicottero erano rimasti in uno stato d'isterismo continuo. I più piccoli scoppiavano spesso a ridere.

— Cosa c'è di così buffo? — aveva chiesto nel Suo solare perfetto. — O si tratta di uno scherzo segreto?

Ma i bambini non avevano spiegato allo Stellisolano, la cui normale visione dei colori comprendeva solo gli infrarossi, che la pelle umana non era un accostamento casuale di verdi e rossi e blu. Persino quando Lui aveva minacciato di trasformarsi in un "Tyrannosaurus Rex" e di mangiarli tutti si erano rifiutati di soddisfare la Sua curiosità. Anzi, Gli fecero subito notare (e Lui era una creatura che aveva percorso centinaia di anni luce e raccolto conoscenza per trenta secoli) che una massa di cento chilogrammi soltanto avrebbe dato vita a un dinosauro poco impressionante.

L'Isolano non si turbò. Era paziente, e i bambini della Terra erano infinitamente affascinanti, sia come biologia che come psicologia. Come lo erano i piccoli di ogni creatura; ovviamente, delle creature che "avevano" piccoli. Dopo aver studiato nove specie del genere, Lui poteva quasi immaginare cosa significasse crescere, maturare e morire… Quasi, ma non del tutto.

Davanti ai dodici umani e al non-umano si stendeva la terra deserta, un tempo ricca di campi e foreste che i freddi provenienti da nord e da sud avevano distrutto. Le graziose palme da cocco erano scomparse da tempo, e anche i pini che le avevano sostituite ormai erano solo nudi scheletri, con le radici avvizzite dal gelo che avanzava. Sulla superficie della Terra non restava più vita; solo negli abissi degli oceani, dove il calore interno del pianeta teneva lontani i ghiacci, poche creature cieche, destinate all'estinzione, si muovevano e nuotavano e si divoravano a vicenda.

Eppure, a un essere il cui pianeta gravitava attorno a una debole stella rossa, il sole che risplendeva nel cielo senza nubi sembrava insopportabilmente luminoso. Tutto il suo calore era scomparso, risucchiato dalla malattia che ne aveva colpito il nucleo mille anni prima; ma la sua! luce potente, fredda, svelava ogni particolare della terra desolata e si rifletteva splendida sui ghiacciai vicini.