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"Il grande elefante da guerre di Kalidas, bardato delle insegne reali, girò su se stesso per evitare un acquitrino. I difensori di Yakkagala pensarono che il re battesse in ritirata. Il loro morale andò a pezzi. Fuggirono, raccontano le Cronache, come fuscelli di paglia davanti al decuscutatore.

"Kalidas venne ritrovato sul campo di battaglia, morto di propria mano. Malgara diventò re. E Yakkagala fu abbandonata alla giungla, per essere riscoperta solo dopo millesettecento anni."

5

Guardando nel cannocchiale

 "Il mio vizio segreto" lo chiamava Rajasinghe, con un certo divertimento ma anche con una punta di rimpianto. Erano anni che non saliva a piedi fino alla cima di Yakkagala; poteva arrivarvi in volo quando voleva, ma non provava lo stesso senso di soddisfazione. Arrivare sulla montagna a quel modo significava rinunciare ai dettagli architettonici più affascinanti della scalata. Nessuno poteva sperare di comprendere la personalità di Kalidas senza seguire esattamente i suoi passi, dai Giardini del Piacere al palazzo aereo.

Però esisteva un surrogato che poteva riservare soddisfazioni considerevoli a un uomo non più giovane. Anni prima aveva acquistato un cannocchiale da venti centimetri, robusto e potente, grazie al quale riusciva a scrutare l'intera parete ovest della Montagna, seguendo la strada che tante volte aveva percorso per arrivare alla cima. Quando guardava attraverso i due oculari gli era facile immaginare di trovarsi a mezz'aria, tanto vicino al granito da potersi protendere a toccarlo.

Nel tardo pomeriggio, quando i raggi del sole al tramonto scendevano al di sotto della sporgenza rocciosa che proteggeva gli affreschi, Rajasinghe rendeva loro visita e porgeva i suoi omaggi alle signore della corte. Le amava tutte, ma aveva le sue favorite. A volte conversava in silenzio con loro, usando le parole e le frasi più arcaiche che conosceva, ben consapevole che il suo taprobani più antico era nato a mille anni nel "loro" futuro.

Lo divertiva anche osservare gli esseri umani, studiare le loro reazioni mentre si arrampicavano sulla Montagna, si fotografavano a vicenda sulla cima, o ammiravano gli affreschi. Non potevano nemmeno sospettare di essere accompagnati da uno spettatore invisibile (e invidioso), che senza sforzi si muoveva al loro fianco come uno spettro silenzioso, così vicino da riuscire a scorgere ogni espressione, ogni particolare dei vestiti. Il cannocchiale era talmente potente che se Rajasinghe fosse stato capace di leggere sulle labbra, avrebbe potuto origliare le conversazioni dei turisti.

Se quello era voyeurismo, era piuttosto innocuo; e il suo "vizietto" era tutt'altro che un segreto, perché gli faceva un immenso piacere dividerlo con gli ospiti. Il cannocchiale costituiva uno degli approcci migliori a Yakkagala, e spesso era servito a compiti molto utili. Rajasinghe aveva spesso avvertito i guardiani quando un cacciatore di souvenir si metteva all'opera, e parecchi turisti, stupefatti, erano stati sorpresi a tracciare le proprie iniziali sulla Montagna.

Era raro che usasse il cannocchiale di mattina, perché il sole si trovava sull'altro lato della montagna e la parete ovest, in ombra, era quasi invisibile. E, almeno per quanto ricordava, non lo aveva mai usato così presto, mentre ancora si godeva la deliziosa abitudine locale del "tè a letto", introdotta tre secoli prima dai coloni europei. Però in quel momento, guardando fuori dalla porta-finestra che gli offriva una visuale quasi completa di Yakkagala, fu sorpreso di notare una figura che si muoveva lungo la cresta della Montagna, parzialmente stagliata sullo sfondo del cielo. A quell'ora, poco dopo l'alba, i turisti non salivano mai in cima. Mancava ancora un'ora prima che i guardiani facessero partire l'ascensore per gli affreschi. Rajasinghe si chiese pigramente chi potesse essere quel tipo così mattiniero.

Saltò giù dal letto, infilò il "sarong" dai colori vivaci, raggiunse a piedi nudi la veranda e si avvicinò alla robusta colonna di cemento su cui era montato il cannocchiale. Si disse, forse per la cinquantesima volta, che il cannocchiale aveva proprio bisogno di un parapolvere nuovo, poi puntò lo strumento sulla Montagna.

— Dovevo immaginarmelo! — disse fra sé, con un piacere non indifferente, e aumentò l'ingrandimento. E così lo spettacolo della sera prima aveva colpito Morgan, come previsto. L'ingegnere voleva vedere da sé, nel poco tempo disponibile, come avessero fatto gli architetti di Kalidas a vincere la sfida della natura.

Poi Rajasinghe si accorse di un fatto allarmante. Morgan passeggiava tranquillamente lungo il ciglio della spianata, appena a qualche centimetro di distanza dal precipizio cui pochi turisti osavano avvicinarsi. Non molti avevano il coraggio di sedere sul Trono a Elefante, coi piedi sospesi sull'abisso; ma ora l'ingegnere si era inginocchiato al suo fianco, si appoggiava alla scultura con un braccio solo, con estrema noncuranza, e scrutava la parete di roccia più in basso sporgendosi sul vuoto. Rajasinghe, che non si era mai trovato a suo agio nemmeno su un precipizio familiare come quello di Yakkagala, quasi non reggeva lo spettacolo.

Dopo qualche minuto d'incredula osservazione, decise che Morgan doveva essere una di quelle rare persone che non soffrono per niente di vertigini. La memoria di Rajasinghe (che era ancora eccellente, ma si divertiva a giocargli scherzi) cercava di fargli tornare in mente qualcosa. Non c'era stato, una volta, un francese che aveva camminato su una corda tesa al di sopra delle Cascate del Niagara, e che addirittura si era fermato a metà strada per gustarsi il pranzo? Se le prove concrete non fossero state così incredibili, Rajasinghe non avrebbe mai creduto a una storia del genere.

E poi c'era qualcos'altro d'importante, un episodio che riguardava Morgan. Di cosa poteva trattarsi? Morgan… Morgan… Praticamente non sapeva niente di lui fino a una settimana prima…

Sì, era "quello". Si era verificata una breve controversia in cui i mass-media avevano sguazzato per un giorno o poco più, e doveva essere stato in quell'occasione che lui aveva udito per la prima volta il nome di Morgan.

Il disegnatore capo del Ponte di Gibilterra, ancora allo stadio di progetto, aveva annunciato un'innovazione sorprendente. Dal momento che tutti i veicoli avrebbero usufruito della guida automatica, era assolutamente inutile costruire ai margini della superstrada parapetti o guardrail. Eliminandoli, si sarebbero risparmiate migliaia di tonnellate di materiale. Ovviamente tutti pensarono che si trattasse di un'idea atroce: cosa sarebbe successo, chiese la gente, se la guida automatica di una macchina s'inceppava e il veicolo usciva di strada? Il disegnatore capo aveva pronte le risposte; sfortunatamente, ne aveva pronte troppe.

"Se" la guida automatica s'inceppava, come tutti sapevano, i freni sarebbero entrati in azione automaticamente, e il veicolo si sarebbe fermato dopo meno di cento metri. Solo sulle corsie più esterne esisteva la possibilità che una macchina volasse fuori; ma perché questo accadesse era necessario un guasto totale alla guida automatica, ai sensori e ai freni, il che poteva succedere una volta ogni vent'anni.

Fin qui tutto bene. Ma poi l'ingegnere capo aveva aggiunto un "caveat". Forse non pensava che la stampa lo divulgasse; forse stava solo scherzando. Ma saltò fuori a dire che, se si fosse verificato un incidente del genere, prima la macchina volava in mare senza danneggiare il suo bel ponte, più felice sarebbe stato.

Inutile aggiungere che il Ponte venne costruito con tanto di cavi deflettori sistemati lungo le corsie esterne; e, per quanto ne sapeva Rajasinghe, nessuno era ancora finito nel Mediterraneo. Però Morgan sembrava pronto a offrirsi in sacrificio rituale alle leggi della gravità lì a Yakkagala; altrimenti le sue azioni diventavano incomprensibili.