La prima di queste "possibilità a scadenza remota", ovviamente, era il satellite immobile di cui parlavano Collar e Flower. I miei calcoli approssimativi, basati sulla resistenza dei materiali esistenti, mi rendevano così scettico nei confronti dell'idea che non mi preoccupai nemmeno di esporla nei particolari. Se fossi stato un po' meno conservatore, o se avessi avuto a disposizione un po' più di carta per fare i calcoli, forse sarei arrivato per primo, ovviamente a prescindere da Artsutanov.
Dal momento che questo libro è (o almeno lo spero) un romanzo, e non un manuale tecnico, rimando le persone interessate ai dettagli tecnici ai sempre più frequenti articoli sull'argomento. Tra gli ultimi: "Come usare la Torre Orbitale per lanciare in orbita ogni giorno capsule che sfuggano alla gravitazione terrestre", di Jerome Pearson (Atti del ventisettesimo convegno internazionale della confederazione astronautica, ottobre 1976), e un notevole articolo di Hans Moravec: "Una stazione orbitale non sincrona" (Atti della riunione annuale della Società Astronautica Americana, 18/20 ottobre 1977).
I Laboratori COMSAT e la "Outer Space Affairs Division" delle Nazioni Unite mi hanno fornito molte informazioni utili sulle regioni stabili dell'orbita sincrona; e mi hanno fatto notare che le forze naturali (in particolare gli effetti prodotti dalla Luna e dal Sole) scatenerebbero oscillazioni di vasta ampiezza, soprattutto in direzione sud-nord. Per cui, "Taprobane" forse non è il luogo ideale che ho descritto nel libro; comunque potrebbe sempre essere meglio di ogni altra località.
È inoltre discutibile l'importanza di un punto così elevato, e se dovesse risultare che la Torre può partire senza il minimo pericolo da una zona a livello del mare, allora può darsi che l'isola di Gan, del gruppo delle Maldive (recentemente evacuata dalla Royal Air Force), possa essere l'angolo di terreno più prezioso del ventiduesimo secolo.
Per chiudere, mi pare una coincidenza molto bizzarra, e addirittura paurosa, che, molti anni prima d'immaginare il soggetto di questo romanzo, io abbia inconsciamente "gravitato" verso quest'isola. Perché la casa che ho comperato dieci anni fa sulla mia spiaggia preferita di Sri Lanka si trova "esattamente" sul punto massimo di stabilità geosincronica.
Per cui, quando andrò in pensione, spero di vedere i relitti della Prima Era Spaziale orbitare nel Mar dei Sargassi sopra di me.
(A. C. Clarke, Sri Lanka, 1978)
E ora, una di quelle straordinarie coincidenze che ho imparato a dare per scontate…
Mentre correggevo le bozze di questo romanzo, ho ricevuto dal dottor Jerome Pearson una copia del Memorandum NASA TM-75174: "Una collana 'spaziale' attorno alla Terra" di G. Polyakov. È la traduzione di "Kosmicheskoye Ozherel'ye Zemli", un articolo pubblicato da "Teknika Molodezhi", 1977.
In questo saggio breve ma stimolante, il dottor Polyakov descrive nei minimi dettagli tecnici l'ultimo sogno di Morgan, un anello teso attorno al globo. Polyakov lo ritiene un'ovvia estensione dell'elevatore spaziale, di cui discute la costruzione e la manutenzione in un modo praticamente identico al mio.
Rendo i miei omaggi al "tovarich" Polyakov e comincio a chiedermi se, ancora una volta, non sono stato troppo cauto. Forse sarà il ventunesimo secolo a costruire la Torre Orbitale, non il ventiduesimo.
I nostri pronipoti sapranno forse dimostrare che, a volte, il gigantesco è bello.
PARTE PRIMA
Il palazzo
1
Kalidas
La corona diventava ogni anno più pesante. La prima volta che il Venerabile Bodhidharma Mahanayake Thero gliel'aveva deposta sul capo con tanta riluttanza, il Principe Kalidas era rimasto sorpreso al sentirla così leggera. Ora, vent'anni dopo, Re Kalidas era ben lieto di togliersi quella fascia d'oro tempestata di gioielli ogni volta che l'etichetta di corte lo permetteva.
E lì, sulla cima della fortezza battuta dai venti, c'era ben poca etichetta. Erano rari i convogli di postulanti che si spingevano a quell'altezza terribile per chiedere udienza. Molti di coloro che compivano il viaggio fino a Yakkagala si fermavano davanti all'ultima salita, non osavano passare tra le fauci del leone acquattato, che sembrava sempre sul punto di spiccare il balzo dalla parete della montagna. A un re vecchio sarebbe stato impossibile sedere su quel trono che toccava i cieli. Un giorno, forse, Kalidas sarebbe diventato troppo debole per riuscire a raggiungere il suo palazzo. Ma dubitava che quel giorno sarebbe mai venuto: i suoi molti nemici gli avrebbero risparmiato le umiliazioni della vecchiaia.
Adesso quei nemici si stavano avvicinando. Lanciò un'occhiata verso nord, quasi riuscisse già a vedere l'esercito del suo fratellastro che tornava a reclamare il trono insanguinato di Taprobane. Ma la minaccia era ancora lontana, oltre i mari battuti dai monsoni; e se anche Kalidas riponeva più fiducia nelle sue spie che nei suoi astrologi, era confortante sapere che su quel punto le loro opinioni coincidevano.
Malgara aveva atteso quasi vent'anni. Aveva preparato i suoi piani e raccolto l'aiuto di re stranieri. Molto più vicino c'era un nemico ancora più paziente e sottile, che lo osservava in continuazione dall'arco di cielo a sud. Quel giorno il cono perfetto di Sri Kanda, la Montagna Sacra che dominava la pianura centrale, sembrava vicinissimo. Sin dall'inizio della storia, aveva ispirato un timore reverenziale a tutti coloro che lo vedevano. E Kalidas era sempre cosciente della sua presenza minacciosa, del potere che simboleggiava.
Eppure il Mahanayake Thero non possedeva eserciti, non possedeva elefanti da guerra che si lanciavano in battaglia barrendo, con le zanne protese in avanti. L'Alto Sacerdote era solo un vecchio vestito d'una tunica arancione, e le sue sole ricchezze materiali erano una ciotola per l'elemosina e una foglia di palma per proteggersi dal sole. Mentre i monaci e i prelati di rango inferiore intonavano le scritture attorno a lui, lui sedeva in silenzio, a gambe incrociate, e in chissà quale modo mutava i destini dei re. Era molto strano…
Quel giorno l'aria era così tersa che Kalidas riusciva a vedere il tempio, rimpicciolito dalla distanza alle dimensioni di una punta di freccia sottile, bianca, sulla cima di Sri Kanda. Non sembrava opera dell'uomo, e al re ricordava le montagne ancora più alte che aveva visto da giovane, quando era stato per metà ospite e per metà ostaggio alla corte di Mahinda il Grande. Tutti i giganti che stavano a guardia dell'impero di Mahinda possedevano cime simili, composte di una sostanza cristallina, abbagliante, per cui non esisteva un nome nella lingua di Taprobane. Gli indù credevano che si trattasse di una specie d'acqua cristallizzata per magia, ma Kalidas aveva riso di quelle superstizioni.
Quello splendore latteo distava solo tre giorni di marcia: uno lungo la strada reale, tra foreste e risaie; altri due lungo la tortuosa scalinata che lui non avrebbe mai più risalito, perché al suo termine si trovava l'unico nemico che temeva, e che non poteva conquistare. A volte invidiava i pellegrini, quando vedeva le loro torce tracciare una sottile linea di fuoco sulla parete della montagna. Al più umile dei mendicanti era concesso salutare quell'alba sacra e ricevere la benedizione degli dèi; al signore di quell'intera terra era proibito.
Ma lui aveva altre consolazioni, anche se destinate a durare poco. Lì, protetti da fossati e bastioni, c'erano gli specchi d'acqua e le fontane e i Giardini del Piacere in cui aveva profuso le ricchezze del suo regno. E quando si stancava di tutto quello, c'erano le signore della montagna: quelle in carne e ossa, della cui compagnia godeva sempre meno spesso; e le duecento immortali, immutabili, con cui sovente divideva i suoi pensieri, perché non poteva fidarsi di nessun altro.